Scrivici

info@istitutostatoepartecipazione.it

Scrivici

ispa@istitutostatoepartecipazione.it

Chi siamo

Le radici

«La più bella rivoluzione che possa idearsi, quella che, dando come base economica al consorzio umano, il lavoro, come base della proprietà i frutti del lavoro, raccoglierebbe, sotto una sola legge d’equilibrio tra la produzione e il consumo, senza distinzioni di classi, senza predominio tirannico d’uno degli elementi del lavoro sull’altro, tutti figli della stessa madre, la Patria». Partendo da queste parole di Mazzini, l’Istituto «Stato e Partecipazione» vuole riannodare i fili di una lunga storia che ha fatto dell’associazionismo, della centralità del lavoro e dello spirito comunitario la sua stella polare. Rimanendo solo al ‘900 italiano, il sindacalismo rivoluzionario («il lavoratore si difende difendendo la Patria») di Corridoni, Panunzio e De Ambris, la Carta del Carnaro, il corporativismo, la socializzazione, la «terza via italiana», la dottrina sociale della Chiesa, fino a uomini “ponte” tra due epoche come Mortati, Fanfani e Vito, furono alcuni esempi significativi. Nel dopoguerra, l’affascinante progetto di collaborazione capitale-lavoro in armonia con la natura e la cultura di Olivetti, la proiezione sociale e internazionale dell’Eni di Mattei, insieme al sistema misto guidato dall’Iri, si rivelarono i segreti della rinascita italiana, e nei loro momenti migliori restano un esempio raramente eguagliato.

La «destra sociale» portò avanti il patrimonio partecipativo, tra luci e ombre, con le idee di «Stato nazionale del Lavoro» e di «sindacalismo nazionale» che attraversarono partiti e movimenti, in particolare con le speculazioni della Cisnal di Landi, Roberti, Laghi e dell’Istituto Studi Corporativi a cui collaborarono Spirito, Brocchi, Niccolai, Accame (autore tra gli altri di «Socialismo tricolore» e «Il potere del denaro svuota le democrazie») e Massi, che già aveva animato l’esperienza di «Nazione Sociale». Di grande attualità rimane il pensiero del fondatore dell’Isc, Rasi, in primis nelle idee di democrazia organica, partecipazione dei lavoratori alle imprese e di «programmazione impegnativa e concertata», diretta, con la collaborazione di tutti i produttori, all’elaborazione di orientamenti economico-sociali di lungo periodo in opposizione tanto allo statalismo quanto all’anarchia del mercato. I suoi interessi spaziarono dalle riflessioni storiche (si vedano gli «Annali dell’economia») fino ai temi del cosiddetto «neocorporativismo» che investirono tutto l’Occidente, passando per la «terza via» di Ota Sik, l’economista della primavera di Praga. La critica alla finanza che schiaccia l’economia reale e alle disfunzioni della «società dei consumi» furono una costante della produzione culturale di Rasi sin dagli anni Settanta, riaffermati fino agli ultimi anni di vita con la creazione del Cesi, istituto che propose riforme costituzionali e progetti europei, studiando autori quali Stiglitz, Mosler e Krugman.

I personaggi sopra rievocati volevano andare oltre il materialismo, il comunismo e il capitalismo, inteso patologicamente come uso finalistico e non strumentale del capitale e del mercato e come piatto e incolto modello di vita. «Noi distruggiamo le bellezze della campagna perché gli splendori della natura, accessibili a tutti, non hanno valore economico. Noi siamo capaci di chiudere la porta in faccia al sole e alle stelle, perché non pagano dividendo», scrisse Keynes, altro autore che rimane centrale. Il modello neoliberista descritto dal sociologo Gallino, egemone dagli anni ’90 (in alleanza con il globalismo progressista) con tutto il suo portato di individualismo, delocalizzazioni, privatizzazioni, dominio della finanza e delle multinazionali, rende evidente la necessità di un ritorno, in forme adeguate ai tempi, del primato della politica, delle idee di cogestione e del ruolo dello Stato inteso nell’accezione più nobile del termine. Da più parti messo sul banco degli imputati come costruzione artificiosa, inutile e anacronistica, dato per morto da lungo tempo, lo Stato rimane nonostante tutto ancora protagonista quale “contenitore” nel quale si deciderà della nostra sovranità e del nostro destino.

Il fine culturale

L’Istituto vuole promuovere: originali e accurati studi storici (mirati in particolare ai temi sopra ricordati); l’osservazione attenta dei casi esteri, come la mitbestimmung tedesca o alcuni spunti provenienti dall’Unione Europea; confronti e dibattiti sui temi cruciali dell’attualità economico-sociale; la massima apertura e il dialogo con tutte le parti politiche e intellettuali, dalla sinistra fino ai massimi esponenti del pensiero conservatore, a maggior ragione in un’epoca in cui i vecchi schemi politici raccontano sempre meno la realtà delle posizioni in campo. L’obiettivo è una crescita culturale costante mirante ad attrarre a sé le migliori forze interessate ai temi sociali e a stimolare riflessioni del più ampio respiro possibile, in un ottica multidisciplinare e capace di ispirare le decisioni politiche locali e nazionali. Economia, diritto, sociologia, arte, geopolitica: più si sale di livello, più le differenze tra ambiti scientifici tendono a sfumare.

Bisogna sostituire alle agenzie di rating, al freddo razionalismo, alla decadenza culturale e all’homo oeconomicus una nuova etica e l’idea di Patria, intesa non come chiusura ma quale orgoglio radicato e massimo sviluppo delle proprie potenzialità in vista di sfide e collaborazioni internazionali, sempre necessarie. Per rendere concreto il cambiamento si deve progettare l’attuazione della Costituzione economica (dalla disciplina pubblica del credito alla collaborazione dei lavoratori alla gestione delle imprese); la valorizzazione del settore primario, del territorio, delle Pmi e di un mondo del credito rinnovato nei mezzi e nei fini; il primato degli interessi nazionali in tutti i settori strategici; la creazione di una nuova rappresentanza che ponga alla base del sistema la competenza, la programmazione di lungo periodo e soprattutto l’idea di uomo sociale, colui che considera i beni economici, insieme con la scienza e la tecnica, strumenti per il miglioramento della società in cui vive ed opera e per il perfezionamento morale suo, in società con i suoi simili. In una parola: la partecipazione. L’elaborazione di soluzioni sempre nuove alle drammatiche crisi (demografiche, sanitarie, economiche e sociali) dei nostri tempi, lo studio minuzioso e specialistico dei più importanti temi giuridici ed economici, l’apertura a ogni lettura e a ogni confronto saranno le armi culturali da impugnare per vincere le battaglie che le dinamiche della globalizzazione e della tecnica ci pongono di fronte.

La volontà e la necessità sono quelle di fornire idee a una classe dirigente che troppo spesso, da anni, non va oltre la prossima tornata elettorale o gli umori dell’opinione pubblica e dei social, dentro uno schema prestabilito e mortificante. Ogni ricerca e proposta in questo senso deve abbracciare quanti più campi e interessi possibili: «non è un buon economista che è solo economista», scrisse Rasi. Il quale aggiunse: «la scienza quando è priva di una forte convinzione etica e di un impegno civile, non è vero progresso e non contribuisce al perfezionamento dell’uomo». Non esiste scienza o economia apolitica, riaffermiamo dunque con orgoglio un nuovo «umanesimo del lavoro» che accetti le sfide della modernità.

Non mancare

Prossimi eventi

Contatti