di Spartaco Pupo
Il recente cambio al vertice del governo britannico ha riacceso il dibattito su quale debba essere la vera mission di un partito conservatore.
L’avvicendamento a Downing Street, dove Rishi Sunak è stato dai conservatori inglesi chiamato a sostituire in fretta e furia Liz Truss, si è reso necessario dopo le polemiche innescate da quest’ultima con un suo taglio alle tasse, ritenuto azzardato in un momento di grande instabilità economica internazionale. Eppure quello di Truss a molti è apparso come un atto in linea con la tradizione conservatrice inglese, tanto che negli ambienti culturali d’area conservative c’è chi parla di “spostamento a sinistra” della linea del partito, tanto da mettere in discussione uno schema tradizionale che va avanti dai tempi di Herbert Morrison.
Il leggendario politico laburista, protagonista della mozione di sfiducia che portò alle dimissioni di Chamberlain nel 1940, disse che, come l’abito fa il monaco, così “il socialismo fa il governo laburista”. Da allora in Inghilterra si è sempre creduto che, al contrario, “tutto ciò che non è socialista fa il governo conservatore”. Gli ultimi eventi sembrano far vacillare queste certezze.
A far discutere, in particolare, è un documento apparso qualche settimana fa su Onward, influente think tank conservatore britannico il cui direttore, Will Tanner, è vice capo dello staff del premier Sunak. C’è scritto che il conservatorismo è intrinsecamente pragmatico e non ideologico, che il cambiamento economico deve avvenire “gradualmente”, che la ricchezza va condivisa il più possibile e che lo Stato deve essere “responsabilizzante” più che “interventista”. Il documento prosegue sottolineando che, per ragioni strutturali, le società occidentali si avviano verso una crescita sempre più bassa e che, per questo, affrontare le disuguaglianze è oggi una priorità assoluta. L’incremento della pressione fiscale, infine, è giustificato dall’invecchiamento della popolazione e dall’aumento della spesa pubblica.
Il nuovo corso di Sunak fa storcere il naso a quanti erano fermi a Morrison e ritenevano che l’aumento delle tasse fosse una prerogativa della sola sinistra e che la destra conservatrice fosse antitetica a ogni forma di centralismo politico perché a favore della “società libera”. Il conservatore, secondo i critici più vicini alle posizioni della Truss, assegna allo Stato un ruolo molto limitato e crede che la politica non debba entrare nella vita privata delle persone, lasciando spazio alle cose cui esse tengono di più: famiglia, amici, tempo libero, comunità, religione, ecc. Più stiamo bene, più l’economia cresce velocemente e più la libertà del privato è garantita. Quanto sta accadendo al governo, invece, sembra accreditare il principio opposto, quello interventista e socialista. Insomma, o si è socialisti e si distribuisce la ricchezza con il prelievo fiscale, o si è liberali e ci si fida della libera creatività degli individui.
Il problema vero è che chi oggi a destra grida allo scandalo per la nuova linea del partito conservatore inglese, scambia il conservatorismo per libertarismo. Furono i libertarians al seguito della Scuola Austriaca di Hayek e Mises, agli inizi del ‘900, a indicare nel socialismo, inteso come equità sociale, la via più breve alla schiavitù politica ed economica. Furono loro, non i conservatori, a lanciare l’allarme sui cambiamenti in negativo prodotti dal “superstato”, facendo leva sugli ideali del laissez-faire, della salvaguardia della proprietà privata e dell’individualismo. È il libertarismo a predicare lo “Stato minimo”, non il conservatorismo. I due sono “cugini”, come li chiamava Robert Nisbet, ma hanno visioni diverse.
La storia del conservatorismo angloamericano è piena di esempi in cui il laissez-faire ha dovuto fare posto alla riforma sociale e alle restrizioni al capitalismo selvaggio. Fu il caso del “socialismo Tory” di Disraeli, per ricordare quelli più famosi, e del conservatorismo democratico di Churchill. Ci sono stati governi conservatori che sono arrivati a introdurre il razionamento dei generi alimentari. Anche il governo di Margaret Thatcher aumentò le tasse, ma nessuno all’epoca ha mai pensato che il conservatorismo fosse diventato socialismo.
Lungi dall’essere marxista o necessariamente di sinistra, la sensibilità al welfare-state è una conseguenza logica dell’etica cristiana ed ellenistica, che il conservatorismo ha sempre abbracciato quando si è trattato si alleviare le sofferenze della gente e venire incontro alle esigenze dei lavoratori. Ma questo problema non è solo inglese. Esso investe tutti i contesti che in qualche modo si ispirano ai valori “conservatori” in senso lato.
Il dibattito in corso in Inghilterra, tanto per essere chiari, prima o poi dovrà aprirsi anche in Italia, per ovvie ragioni. Fratelli d’Italia, a detta della sua leader, Giorgia Meloni, è a tutti gli effetti un partito conservatore, ed è stata una scelta strategica non indifferente quella di presenziare alla convention dei conservatori statunitensi o di citare spesso, come ha fatto nel suo discorso di insediamento, Roger Scruton, l’ideologo del conservatorismo britannico. Certo, tra Inghilterra e Italia vi sono differenze notevoli di ordine sia interno che esterno. Brexit a parte, cambia la struttura istituzionale, il sistema politico, la storia dei partiti di riferimento e il profilo dei leader: il milionario Sunak ha un patrimonio che è quasi il doppio di quello di re Carlo e un’estrazione sociale e culturale opposta a quella popolare e tutta “pane e politica” della Meloni.
Ma la situazione economica derivante dallo scenario internazionale è pressoché uguale, e anche l’attuale governo potrebbe essere prima o poi chiamato ad affrontare problemi simili a quelli dell’omologo inglese. Anche in Italia, soprattutto tra i libertari della coalizione di governo, potrebbero porsi alcuni interrogativi: cosa significa essere conservatori nelle politiche economiche? Qual è la visione dello Stato che hanno i conservatori? Le risposte, più che alla politica, spettano alla metapolitica della destra italiana.
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