(10. QUALE SOVRANISMO?) LA SINTESI POPULISTA COME GENESI DEL SOVRANISMO

(10. QUALE SOVRANISMO?) LA SINTESI POPULISTA COME GENESI DEL SOVRANISMO

Di Filippo Del Monte

La crisi dell’Occidente e di conseguenza dell’ideologia liberal-liberista ha innescato nel corso degli ultimi anni un processo dirompente, si potrebbe dire rivoluzionario, che prende forma nella radicale contestazione al sistema da parte delle nuove forze sovraniste europee. Il sovranismo è il fenomeno politico sincretico nato dall’incontro – tra le rovine di questa crisi d’inizio secolo – della destra socio-nazionale con la sinistra populista, dunque esso è una evoluzione del populismo propriamente detto.

La sinistra populista

Per sinistra populista deve intendersi quel blocco politico e culturale composito d’ispirazione post-marxista sorto con i primi accenni della globalizzazione. Sviluppatasi sull’onda della scoperta “comunitaria” del comunismo – in Italia il filosofo marxista Costanzo Preve ha svolto un’opera fondamentale in proposito – e della crisi della lettura marxiana della società. La sinistra populista ha rivalutato il concetto di “popolo” sostituendolo a quello di “classe” e quindi inserendo la “nazione” all’interno di un contesto profondamente diverso rispetto a quello delle “sovrastrutture” entro cui era stata relegata da Marx prima e dai marxisti-leninisti poi.

Questo perché la società liquida odierna ha reso difficile, se non impossibile, distinguere classi sociali strutturate e il radicale impoverimento della piccola-media borghesia ha di colpo privato d’attualità le analisi marxiste e neo-marxiste sul contesto sociale ed economico. Classi evanescenti portano ad una lotta di classe evanescente; il conflitto sociale novecentesco s’è così sgretolato in un magma di difficile interpretazione per quanti hanno sempre ragionato secondo dinamiche classiste ed economicistiche.

Un giornalista e sociologo post-marxista italiano tra i più conosciuti, Carlo Formenti, ha dato del populismo tale definizione: “Il populismo in quanto conflitto alto-basso è la forma che assume oggi la lotta di classe, spuria certo, perché spuria è oggi la composizione di classe. Non si costruisce più la classe, ma si costruisce il popolo, ovvero quel soggetto fatto di tante stratificazioni basate su domande e richieste rimaste inevase, non accolte. Può andare tanto a destra quanto a sinistra. C’è un elemento di contingenza molto elevato”.

Dunque per i post-marxisti, “ala pensante” della sinistra populista, se la lotta di classe non è scomparsa, poco ci manca. La stessa definizione della lotta di classe come “spuria” da parte di Formenti mette in dubbio che nel 2020 ancora si possa parlare di “classe sociale” e questo sembra, sotto certi aspetti, non solo il superamento del marxismo, ma anche del post-marxismo come inteso dal 1991 ad oggi. Da qui la ricerca di nuove sintesi che vadano oltre i concetti di destra e sinistra.

La destra sociale nazionale

La destra sociale e nazionale – che sembrava essere uscita sconfitta dal processo di globalizzazione – ha invece saputo sfruttare la crisi dell’ideologia liberal-liberista riportando la “nazione” al centro del dibattito politico. Nazione non più intesa quale feticcio “patriottardo” ma come realtà vivente, come “tempio delle identità” in cui un popolo si riconosce. Ecco quindi l’incontro tra la nazione e la massa, la declinazione del “populismo” visto da destra.

La riscoperta della comunità nazionale come valore fondante è stata la base da cui partire per contestare il sistema liberal-capitalista mettendone in dubbio le basi, da quelle sociali (mercato del lavoro) fino a quelle prettamente politiche (democrazia rappresentativa). L’interclassismo esasperato della società attuale è sotto molti aspetti simile a quello descritto da Ernst Jünger ne “L’Operaio” (1932), al tramonto della Repubblica liberal-democratica di Weimar: “Cominciano a muoversi strati sociali che è molto difficile definire, tanto per l’origine che per la composizione. È un miscuglio umano intelligente, esasperato, pronto a esplodere, che si serve a modo suo d’una sfrenata libertà di associazione, di parola, di stampa”.

Il populismo di destra ha saputo comprendere, più di quello di sinistra, la trasformazione della società figlia della crisi economica attuale. Se il conflitto sociale a destra non ha mai assunto i toni della “lotta di classe” – o completamente assente o considerata un problema superato nel pensiero delle destre – è anche vero che la contrapposizione alto-basso, élites-popoli, ha riportato in auge, seppur allo stato embrionale e probabilmente senza consapevolezza, la concezione delle classi intese come “categorie dello spirito”; dunque classi non basate esclusivamente su parametri crudamente economici, ma anche sul patrimonio valoriale di riferimento. Le cosiddette élites non sono individuabili solo ed esclusivamente con i “ricchi”, ma sono quei gruppi di persone che rappresentano, per lo stile di vita e per il modo di pensare, anzi, soprattutto per quest’ultimo, la personificazione del capitalismo rapace figlio della globalizzazione.

Nel populismo sovranista infatti destra e sinistra sono accomunate da una comune visione anti-capitalista. La comune ostilità nei confronti dell’immigrazione selvaggia – ora vista come genesi del “conflitto etnico”, ora come manovra contro la forza lavoro autoctona – unisce tanto Alain De Benoist quanto Jeremy Corbyn; la lotta contro l’individuo-consumatore sradicato impone, da parte populista, una revisione del concetto di “lavoro” che si avvicina, specie nelle sue frange vagamente di destra, al grande progetto di superamento del salario teorizzato dal sindacalismo fascista nella seconda metà degli anni ’30. Secondo il sindacalista rivoluzionario e teorico fascista Sergio Panunzio “l’indice funesto” della civiltà capitalista stava in quella fase in cui “l’uomo opprime, asservisce l’altro uomo, segno di civiltà in cui l’uomo è abbrutito, ed il lavoro non è soggetto ma oggetto, non persona ma cosa, non valore ma merce”.

È infatti anche nei progetti di rimodulazione del mercato del lavoro che i populismi “rosso” e “nero” stanno percorrendo la strada insieme per arrivare poi a politiche in difesa della manodopera nazionale, del contratto a tempo indeterminato, delle PMI; il tutto condito – eccezion fatta per il caso Trump negli Stati Uniti – da concezioni economiche di stampo statal-protezionistico.

La visione dell’economia dei populisti orbita infatti attorno a progetti di natura socialisteggiante (specie se le forze politiche trainanti provengono da una tradizione di sinistra) ma anche attorno a quelli “neo-mercantilisti”. Il grande ritorno sulla scena del mercantilismo è stato – come ha fatto notare Giulio Tremonti – il frutto della sostanziale paresi del “mercatismo” liberista e le forze “sovraniste” ne hanno fatto una bandiera da sventolare ora contro la sclerotica Unione Europea, ora contro quegli Stati considerati “concorrenti sleali” a livello internazionale. Ma va anche sottolineato che nei programmi di politica economica dei sovranisti, almeno di quelli d’area mediterranea, pare che la scuola storica tedesca si sia ripresa la sua rivincita sui liberali.

Specie in ambito economico-sociale il populismo – o meglio, i populismi – europeo si configura come un blocco magmatico al suo interno ma composito all’esterno. Si riconoscono caratteristiche comuni alle forze a vario titolo definite “populiste” o “sovraniste”. Resta da capire come il malcontento sociale, la lettura della crisi economica e quella della crisi politica saranno utilizzate dai vari partiti sovranisti in chiave squisitamente nazionale, costruendo un’impalcatura ideologica e programmatica che risponda prima di tutto ai canoni della propria realtà di riferimento. La dottrina del sovranismo, che è anzitutto pragmatica, è ancora tutta da costruire e resta il vero fulcro del dibattito.

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