Di Elena Caracciolo
Il sovranismo non ha bisogno di nemici: questo è l’assunto principale da cui tutte le narrazioni sul sovranismo dovrebbero prendere le mosse. Il sovranismo non sorge come reazione ad un momento storico, altrimenti sarebbe una prassi di popolo “occasionale”; non è concatenato, ma istitutivo e questo è il motivo sostanziale del perché si svela come una categoria universale. Non soggetto a scomposizione, privo di frammentazioni a sostegno di superiorità e “diverse velocità della storia”, senza nietzscheiane nozioni di darwinismo sociale più o meno nazionali: il sovranismo è tale perché comune a tutti i popoli e in ogni popolo costituisce un assolutamente organico, una narrazione non ufficiale ma intrinseca.
Chiaro che quella italiana è una letteratura storica, filosofica, politica ed economica decisamente strabordante di assunti sovranisti: i più compiuti discorsi sugli stati nazionali di mazziniana memoria, sulla Patria fascista che è trasposizione di un atto di volontà e identità spirituale lo attestano; conferma di ciò rinviene altresì dalla definizione di “teologia civile ragionata” vichiana o dall’ultimissimo sforzo di Marcello Veneziani che, nel ripartire a tre livelli il sovranismo, parla di “progetto di civiltà” nel suo stadio più compiuto. Ma è sbagliato anche prendere esclusivamente a testimonianza fonti di questo lato mediterraneo peninsulare, sussumere la “nostra letteratura” a sostegno del sovranismo ed è invece preferibile interrogare un po’ di letteratura filosofica circostante, il che costituisce una scelta né divulgativa, né logistica, ma filosofica. Il sovranismo non può infatti essere spiegato col “nostro” sovranismo, altrimenti sarebbe eugenetica: e ci è voluto un genio come Eric Voegelin in “Razza. Storia di un’idea” a dimostrare come la Germania del trionfo eugenetico avesse fallito non nel sostenere che esistessero razze superiori, ma nel sostenerlo biologicamente piuttosto che spiritualmente (come fece invece Carl Gustav Carus quando parlò di razze che sorpassano altre razze in imprese culturali o come fece Goethe quando pensò l’individualità di spirito e corpo).
In un breve viaggio tra gli autori, non si interrogherà dunque mai in merito al sovranismo una teoria dell’evoluzione, ma si interrogherà sempre quella parte di letteratura che ha spiegato il contenuto di spirito in relazione all’umanità tutta e l’ha poi continuamente rinvenuto dalla propria storia ancestrale in una serie di pratiche, credenze, prospettive valoriali e fermenti linguistici, antropologici, religiosi ed etici che la tengono insieme. Sono le “fattispecificità” identitarie a rendere i popoli sovrani (come dice Alain De Benoist: “identità e sovranità sono nozioni inseparabili”), poiché esse esulano dall’esclusione ma sono perimetro di autocoscienza, confine che conserva un saldo innervarsi a qualcosa di irripetibile e perciò degno, noto e dunque archetipico, comune e allora oggetto di autodeterminazione. Perno di tradizioni che si fanno decisioni, di uomini che si fanno popoli, di menti che si fanno eroi: il sovranismo è solo il nesso logico che proibisce lo spargimento di tutto questo “conoscersi” in nome di un indistinto; indistinto, fra le altre cose, che culturalmente conduce all’alienazione liquida ed economicamente alla sottomissione dei popoli al capitale transnazionale e perciò pericolosamente in mano a pochi.
Il sovranismo è invece il contrario dell’imbarbarimento moderno semplicistico nella sua accezione fintamente aperta ed è quanto di più complessamente sottoterreno esista. È coscienza liminare tra due profondità: un bagaglio d’identità incandescente da cui è impossibile prescindere e una filosofia della storia incontro a cui andare da profondamente coscienti. Nell’esposizione al gioco storico del divenire, siamo infatti heideggerianamente “l’orizzonte in cui siamo stati gettati”, il -ci come un essere “qui ed ora” in una determinata realtà geografica, culturale, storica e politica impossibile da mistificare; quello che Hans-Georg Gadamer con la sua ermeneutica dirà costituire uno “spirito oggettivo che non si può ignorare”. Molto più poeticamente si espresse Johann Gottfried Herder quando affermò che
“Dove sei nato e quale sei nato, o uomo, sei quello che devi essere; non staccarti dalla catena, né metterti al di fuori di essa, ma attaccati saldamente ad essa. Soltanto nella sua connessione, in ciò che tu dai e ricevi, e quindi in entrambi i casi in ciò che tu diventi attivamente, si trova la vita e la pace per te”.
Il sovranismo è dunque una categoria filosofica che riporta ad una teofania storica che vi presiede, un processo di vivificazione del prima in virtù di uno stato dell’essere: la decisionalità è solo uno stadio di questa rivelazione del macrocosmo che è immanente al microcosmo. E chi si beffa del sovranismo è soltanto qualcuno che non è mai andato a fondo, in quel nucleo incandescente che irradia della sua propria identità. Qualcuno, cioè, che arrogandosi il diritto di pensare senza confini ha finito per edificare una terra di nessuno: terra, ovviamente, nemmeno sua.
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