ELEZIONI AMERICANE. CONTRO IL “TIFO”, PENSIAMO ALLA SOVRANITÀ E ALLA CULTURA ITALIANA

ELEZIONI AMERICANE. CONTRO IL “TIFO”, PENSIAMO ALLA SOVRANITÀ E ALLA CULTURA ITALIANA

Di Andrea Scaraglino

Sul risultato delle elezioni americane regna al momento l’incertezza. Quel che è certo però è che il  risultato delle elezioni presidenziali americane toglierà le castagne del fuoco a tanti membri della politica nostrana, che attendono l’esito con una trepidazione più volte fuori le righe. Troppo spesso tutto ciò rimarca – se ce ne fosse ancora bisogno –  la cronica situazione di sudditanza della nostra nazione nei confronti dell’impero statunitense.

Sia chiaro, nessuno può o vuole negare il peso che questa tornata elettorale avrà fattivamente sulla politica del globo – non solo sulla nostra penisola, dunque – ma quello che scade nell’inaccettabile è la ripartizione delle poche frange vive della nostra politica in curve di ultrà, pro o contro uno dei due candidati a stelle e strisce. Il riferimento non può, di certo, estendersi a chi da settant’anni e più ha scientemente aderito ad una visone servilistica della politica italiana tutta incentrata su un becero materialismo, e l’accozzaglia di ex collettivisti, popolari e liberal-conservatori nei vari partiti più o meno di governo ne è la riprova. Il problema, ed è un problema enorme, si presenta nel momento in cui anche chi si ritiene sovranista, ovvero un individuo che persegue l’indipendenza tout-court del proprio popolo, corre una gara al ribasso con la propria dignità. Ovvero traslando, data l’impossibilità di incidere fattivamente sulla propria vita nazionale,  il proprio impegno comunitario su scenari politici lontani che sono spesso alla base del servaggio che si dice voler combattere. Del resto, le divisioni ideologiche di base tra democratici e repubblicani americani non arrivano a scalfire la visione atomistica e materialista dell’uomo negante la sfera spirituale, latinamente intesa, di quest’ultimo. Entrambi gli schieramenti hanno per molti versi un’agenda politica simile per il futuro dell’uomo, un domani fatto di un’omologazione globale che, come ampiamente spiega Daniele Perra, altro non è, se non “una caricatura dell’unità […] un mero inganno, la negazione stessa dell’unità”, o ancora “Non vi è lotta interna alla gerarchia statunitense. L’unica disputa è quella sulle modalità attraverso le quali ridare slancio a quella progettualità geopolitica di egemonico dominio globale che la provvidenza [sic!] ha garantito agli Stati Uniti”.

Non comprendere che una “modalità”, soprattutto anglosassone, sia qualcosa di molto diverso da una fattività programmatica latina è il peccato originale che il mondo sovranista si porta appresso. La madre di ogni confusione con cui il reale dispiegamento ideologico e pratico del sovranismo viene anestetizzato. Insomma, bisogna tornare ad essere in grado di produrre una cultura politica autonoma che ci liberi dall’omologazione di cui sopra e ci permetta di soddisfare i bisogni materiali e spirituali della nostra nazione secondo dettami confacenti alla nostra natura di mediterranei.   

Mettere da parte gli isterismi da ultrà è un bisogno primario del “mondo sovranista”, conditio sine qua non, per ribaltare il triste epitaffio che un “sovranista ante litteram” pronunciò in merito al nostro futuro come nazione, Beppe Niccolai:

 “É la sorte che, in genere, tocca ai servi. Bocca chiusa, sangue, morte, beffa. Si, saremo anche la quinta potenza industriale del mondo, ma sul piano dell’indipendenza nazionale il nostro posto, nella classifica mondiale, è è al di sotto dei paesi del terzo mondo. Questi almeno la propria dignità di nazione, pur fra stenti indicibili, fame, carestie, cercano di conservarla e difenderla. Noi, no. Noi, tutte le mattine indossiamo la livrea del servo”.

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