Di Andrea Muratore
Il recente perfezionamento dell’accordo sullo stabilimento ex-Ilva di Taranto tra il governo di Roma e la succursale italiana del gruppo Arcelor-Mittal ha riportato sotto la lente dell’opinione pubblica il tema del futuro dell’acciaio italiano.
Lo Stato torna in campo e sul fronte dell’acciaio di Taranto punta a porre fine a una lunga querelle mettendosi a fianco del gruppo franco-indiano come investitore in un contesto, quello della più grande acciaieria d’Europa, depauperato da anni di mala gestio, da complesse cause giudiziarie, dal decadimento della salubrità ambientale dell’impianto pugliese e dall’assenza di un piano strategico di lungo periodo.
A livello aggregato, è decisamente importante constatare come un discorso simile debba esser fatto a livello di filiera nazionale. “Senza acciaio non c’è industria” è il motto con cui Oscar Sinigaglia, padre della Finsider, spiegò facilmente e con pragmatismo l’importanza di un materiale cruciale per la produzione nazionale. Perno dell’apparato pubblico dell’Iri assieme al visionario “impero romano” della Stet, “costruttrice di cavi e reti che hanno garantito all’Italia”, come ha scritto il direttore del Quotidiano del Sud[1] Roberto Napoletano, “il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale”. La Finsider, dal Piano Sinigaglia del secondo dopoguerra in avanti, creò una leva fondamentale per l’industria nazionale[2]: e se per l’acciaio totalmente di Stato i tempi sembrano essere passati, non c’è ragione per ritenere che la presenza pubblica nell’ex Ilva debba esser volto unicamente a ripianare perdite e debiti e che un disegno di politica industriale complessivo che parta dalla materia decisiva per eccellenza sia da scartare.
Il settore dell’acciaio italianonon si limita infatti dall’ex-Ilva, che gioca un ruolo fondamentale nel contesto della produzione del Mezzogiorno (nel 2019 il comparto siderurgico del centro sud da 170 imprese ha fatturato 4,6 miliardi di euro, principalmente riconducibili al polo tarantino), ma è strettamente legato alla realtà industriale di un Paese che fa dell’integrazione alle catene del valore e ai commerci delle piattaforme produttive europee[3] un volano per il suo tessuto imprenditoriale.
La recente ricerca “Bilanci d’Acciaio 2020”, realizzata da Siderweb, una rivista specializzata di settore, commentata approfonditamente da Industria Italiana[4] misura su scala aggregata il settore: ricavi per quasi 60 miliardi e 33.400 occupati rendono l’Italia il secondo player siderurgico europeo, colossi privati stanziati nel Nord (da Feralpi a Ori Martin) vicino al cuore pulsante della manifattura nazionale (Bergamo, Brescia, Brianza in Lombardia assieme al Triveneto) e ai mercati di sbocco europei e internazionali si uniscono ai maxi-impianti come l’Ilva. A mancare è spesso stata un’incisiva azione del decisore pubblico. Come scrive Industria Italiana, i ritardi degli ultimi governi nell’incentivazione dello sviluppo di un polo nazionale vincente e competitivo sono sotto gli occhi di tutti.
Appare oramai inconcepibile competere sui volumi di fronte a un contesto globale che vede una vera e propria superpotenza del settore, la Cina, produrre il 51% dell’output mondiale. Ma Pechino fornisce una sponda su quelle che possono essere le soluzioni virtuose per rilanciare l’acciaio nazionale. Possiamo chiamarla la strategia delle tre “I”, investimenti, infrastrutture, innovazione.
Investimenti e infrastrutture, da un lato, perché è da un programma corposo di opere pubbliche prodotto con la regia nazionale che si possono prendere più piccioni con una fava: mobilitare risorse, stimolare la domanda interna di acciaio e venire incontro alla inderogabile necessità del sistema-Paese di dare nuova linfa ai collegamenti interni di matrice ferroviaria, stradale e aeroportuale. Uno stimolo iper-keynesiano, parzialmente inquadrabile nel contesto del futuro Recovery Fund comunitario, può aver ricadute a cascata sull’indotto dell’acciaio. Come ci ricorda la testata specializzata in questioni industriali[5], per fare un paragone “la Cina sta costruendo 14 nuovi aeroporti, e quasi 4mila km di nuove infrastrutture ferroviarie. Servono 20 milioni di tonnellate d’acciaio, e tutta la filiera è mobilitata. La lezione di Keynes, dimenticata in Occidente, trova applicazione e trionfa a Pechino: l’intervento pubblico statale a sostegno della domanda aggregata funziona”. L’esempio del recente consorzio per la costruzione del Ponte San Giorgio di Genovadimostra la rilevanza delle catene del valore mobilitate dalle grandi opere: per costruire l’erede del viadotto Morandi sono state necessarie quasi 19 mila tonnellate di lastre d’acciaio. E se l’azienda che ha fornito il 95% del materiale è stata l’ucraina Metinvest, colosso ucraino dell’acciaio mondiale (7,6 milioni di tonnellate prodotte l’anno) ha fornito il 95% della fornitura del materiale necessario in forma grezza, la trasformazione effettiva del prodotto è avvenuta nello stabilimento di San Giorgio di Nogaro (Udine), al cui interno è stato rilaminato e preparato per l’edificazione del San Giorgio.
Abbiamo detto, poi, innovazione. Il nostro Paese non è privo di esperienze di frontiera sulle migliori pratiche per il futuro: il Cluster Fabbrica Intelligente presenta i virtuosi casi della bresciana Ori Martin – azienda bresciana che produce acciai speciali per automotive e per la meccanica – e di Tenova, società interna al gruppo italo-argentino Techint con sede a Castellanza (Va) il cui ramo d’azione è la produzione di soluzioni di ingegneria per l’industria metallurgica e mineraria. Il punto cruciale è fare sistema di queste esperienze e procedere sulle direttrici più importanti da percorrere: una competizione che privilegi gli acciai speciali, sul modello Ori-Martin; una spinta sistemica sull’applicazione di modelli di nuove tecnologie, dagli algoritmi di manutenzione predittiva dei macchinari al modello Factory 4.0, per ridurre i costi e gli sprechi negli impianti; una corsa spinta alla decarbonizzazione per rendere il ciclo più sostenibile.La Cina, spiega Simone Pieranni in Red Mirror,sta rivoluzionando le catene del valore globali con l’innovazione tecnologica spinta. Il futuro è adesso, e non si può ignorare.Ilva può diventare con la mano pubblica, il cuore di questo processo di transizione. E trasformarsi in un polo centrale per l’economia circolare se a ciò si aggiungerà l’inizio di un ciclo nazionale di recupero dei rottami ferrosi che può aumentare la sostenibilità e la redditività del processo. Ma nessuna acciaieria è una monade a sé. Un impianto tanto complesso e i suoi altoforni vivono solo nel quadro di un disegno coerente di politica industriale e di adattamento a una competizione globale sempre più spinta. Possedere quote segnaletiche in grandi impianti non è che l’inizio. Bisogna capire cosa farsene. E questa è la maggiore fonte di dubbi sulle scelte future del governo di Roma.
[1] https://www.quotidianodelsud.it/laltravoce-dellitalia/gli-editoriali/2019/11/06/leditoriale-del-direttore-roberto-napoletano-laltravoce-dellitalia-cera-una-volta-litalia/
[2] http://osservatorioglobalizzazione.it/progetto-italia/iri-leterno-ritorno/
[3] http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/catene-del-valore-coronavirus/
[4] https://www.industriaitaliana.it/acciaio-siderurgia-ilva-invitalia-ori-martin-duferco-arvedi-danieli-feralpi/
[5] https://www.industriaitaliana.it/acciaio-siderurgia-ilva-invitalia-ori-martin-duferco-arvedi-danieli-feralpi/
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