di Augusto Grandi
“Alcuni studiosi prevedono che la quota della produzione mondiale controllata dalle multinazionali è destinata ad aumentare ulteriormente. Considerando anche le economie di scala di cui godono queste imprese, cioè la possibilità di realizzare economie attraverso il coordinamento delle loro attività, gli stessi studiosi prevedono che nel 2000, cioè tra meno di trent’anni, oltre due terzi della produzione industriale mondiale sarà in mano alle 200/300 maggiori società multinazionali”. Era il 23 febbraio 1972 quando Eugenio Cefis, allora alla guida di Montedison, pronunciò questo discorso all’Accademia Militare di Modena all’interno di un programma di conferenze per l’anno accademico ‘71/’72.
Difficile sostenere, a distanza di 50 anni, che nessuno sapesse il destino che si stava prospettando. Al di là degli aspetti relativi all’effettivo estensore del discorso di Cefis, che si trattasse di Miglio, di Prodi, di Siro Lombardini. O dello stesso Cefis. Che proseguì: “Non si può chiedere alle imprese multinazionali di fermarsi ad aspettare che gli Stati elaborino una risposta adeguata sul piano politico ai problemi che esse pongono. Così come – e l’esperienza italiana ce lo insegna – non si può chiedere al potere sindacale, che è l’altra grande forza economica che esiste negli Stati democratici moderni, di bloccare le rivendicazioni dei lavoratori in attesa che lo Stato elabori le risposte adeguate”.
Un discorso complesso, articolato. Cefis insisteva sulla necessità che gli Stati inventassero strumenti di politica sempre nuovi per poter fronteggiare il contropotere rappresentato dalle multinazionali (in fondo si anticipavano le risoluzioni delle Brigate Rosse a proposito del Sim, lo Stato Imperialista delle multinazionali): “Se le forze operanti a livello nazionale non riusciranno a tenere il passo dello sviluppo economico e dei suoi problemi, assisteremo a un progressivo svuotamento del potere politico nazionale”. Non che l’analisi fosse scevra di errori. Cefis, o chi per lui, ipotizzava la marginalizzazione del governo e del parlamento, ma a vantaggio non solo delle multinazionali ma anche dei sindacati, “anch’essi avviati a un coordinamento internazionale”. Con lo Stato ridotto ad un ruolo di mediatore tra multinazionali e sindacati. Per poi concludere con un invito ai militari affinché si occupassero di politica.
Un invito che, qualche anno dopo, venne interpretato come una richiesta di prendere il potere. Ma erano gli anni dei golpe, inventati, tentati, chissà.
Cefis, va ricordato, non era una brava persona. Coinvolto in mille traffici, sospettato di essere coinvolto nell’assassinio di Enrico Mattei (di cui prese il posto al timone dell’Eni) e nella sparizione del giornalista Mauro di Mauro, responsabile della fine della strategia di indipendenza energetica dell’Eni fatta tornare nell’orbita delle sette sorelle, coinvolto già come partigiano nelle vicende dei servizi segreti americani. Paolo Morando racconta il personaggio nel suo libro “Eugenio Cefis” pubblicato da Laterza.
Ma ciò che conta, al di là del personaggio, è la previsione relativa al cambiamento epocale dell’economia globale. Eccessivamente ottimista, valutandola oggi. Perché il problema non è tanto nella concentrazione complessiva della produzione nelle mani di 200/300 grandi gruppi, ma nel controllo delle produzioni strategiche gestito da un nucleo molto più ristretto.
Lo si è visto con Big Pharma, in occasione della gestione del Covid che, di fatto, non è stata decisa dai vari ministri ma dalle case farmaceutiche e dagli scienziati di riferimento. Sono stati loro, con risultati spesso disastrosi, a decidere ciò che faceva bene e ciò che era dannoso. Sì ai vaccini e no alle cure.
Ma è solo un esempio. Pochissime multinazionali controllano la produzione di sementi, pochissime la produzione dei fitofarmaci. Non è fondamentale che siano concentrate nelle mani di pochi investitori le grandi case di moda; è fondamentale che pochi gruppi controllino immensi territori agricoli e le forniture alimentari.
E la concentrazione non ha riguardato solo la produzione, ma si è estesa anche ai servizi. Telefonia, social, distribuzione. Si è passati dalle grandi catene della distribuzione organizzata – con una guerra, in Europa, tra francesi e tedeschi – all’oligopolio che tende al monopolio di Amazon.
Fanno quasi tenerezza, a distanza di 50 anni, le illusioni sul ruolo dei militari. E fanno ridere le speranze affidate da Cefis ai sindacati: completamente spazzati via dalla loro stessa arroganza, presunzione, impreparazione. Invece di contrastare il crescente potere delle multinazionali, i sindacati si dedicavano alla tutela dei diritti civili. Invece di accorgersi dei rischi connessi con l’immigrazione selvaggia, si dedicavano alla difesa dell’esercito industriale di riserva che spazzava via i diritti sociali dei lavoratori.
Quanto allo Stato, agli Stati nazionali, non osavano fiatare di fronte all’offensiva delle multinazionali. Perché il capitalismo cosmopolita utilizzava i chierici della disinformazione per magnificare le centinaia di assunzioni collegate con l’apertura di un nuovo centro logistico delle multinazionali, facendo nascondere le migliaia di posti di lavoro cancellati dalla stessa apertura.
Ora, però, arrivano le grandi contromisure. I mega gruppi internazionali pagheranno le tasse! Quasi come se fossero imprese normali e locali. Quasi, perché in Italia il loro livello di tassazione sarà pari a un terzo, ad un quarto di quanto viene preteso dalle aziende locali. Altro che concorrenza basata sulle economie di scala. Lo Stato protegge i grandi gruppi stranieri e penalizza artigiani, commercianti, piccoli e medi industriali nazionali. Non è proprio un confronto alla pari. Un governo che si definisce atlantista, per di più, parte già con il presupposto di evitare ogni contrapposizione con il capitalismo di Oltreoceano. Dunque si evita accuratamente di giocare su più tavoli, di inserirsi nei contrasti tra Washington e Pechino, tra gli Usa e la Russia. Un governo che non capisce le enormi potenzialità dell’Africa per un Paese collocato al centro del Mediterraneo; che ignora le opportunità rappresentate dai milioni di abitanti di origine italiana in America Latina; che non prende in considerazione gli altri milioni di discendenti di italiani in altre parti del mondo.
Un governo che chiede soldi a Bruxelles, in prestito, ma che non è capace di avere un ruolo determinante nell’Unione europea. Eppure l’Italia ha lo stesso numero di abitanti della Francia che conta molto di più e che ottiene molto di più.
Se a questo si aggiungono i colossali errori che il capitalismo italiano si ostina a commettere – investimenti ridicoli in ricerca e sviluppo, scarsa capacità di conquistare nuovi mercati internazionali, prodotti obsoleti, nessun investimento sul capitale umano che viene invitato a trasferirsi all’estero – si comprende come le prospettive siano decisamente più negative rispetto agli incubi di mezzo secolo orsono.
Le aziende italiane, da anni, sono in svendita, spesso a prezzi di saldo. Fiat, diventata Fca, è stata acquisita dai francesi e solo media di infimo livello hanno potuto inventarsi che era una fusione alla pari. Pininfarina è indiana e Giugiaro tedesca. La moda è passata in mani straniere, l’industria alimentare in alcuni comparti è pressoché interamente straniera, i settori strategici sono stati ceduti.
La globalizzazione ha avuto un solo senso di marcia. Eppure la Cina aveva chiesto proprio a Fiat di essere il primo gruppo straniero ad andare a produrre nel Paese asiatico. Ricevendo un rifiuto da Romiti che, lungimirante, non credeva nello sviluppo di Pechino. Così come Marchionne non credeva nelle potenzialità dell’elettrico. Grandi visioni strategiche. Come quelle che, dopo la scomparsa di Adriano Olivetti, avevano visto il gotha del capitalismo italiano imporre al gruppo di Ivrea la cessione del comparto elettronico, “un bubbone di cui liberarsi subito”, aveva sentenziato Valletta, simbolo della lungimiranza italiana.
La stessa lungimiranza che, ora, impedisce di valutare le possibilità offerte dalla Via della Seta proposta da Pechino. Una via che aveva compreso Marco Polo, ma che appare incomprensibile a chi, adesso, dovrebbe evitare di consegnare l’Italia alle multinazionali americane.
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