di Francesco Marrara
È uscito, per la collana fuori dal coro de «Il Giornale», l futuro dell’Africa è in Africa del giornalista e saggista Marco Valle. Le Afriche, come preferisce chiamarle l’autore, non sono solamente una vasta fascia di territorio caratterizzato da conflitti, carestie e migrazioni e, proprio per tale ragione, il libretto si propone di analizzare – secondo una visione inedita e pragmatica – luci ed ombre del Continente africano.
Il miracolo africano
L’autore, attraverso un interessante excursus storico, ripercorre le vicende africane ravvisando nella caduta dell’URSS un passaggio cruciale. Molti paesi, malgrado diverse criticità, iniziarono ad imboccare la via del multipartitismo e il risultato di questo processo portò al cosiddetto “miracolo africano”. Tra il 2007 e il 2019, infatti, furono dieci i Paesi africani ad avere una importante crescita economica.
Terreno fertile per russi e cinesi
Con la morte di Mao e l’avvento di Den Xiaoping, la Cina tornò a guardare con grande interesse l’Africa. Nel 2000 la Cina presentò il Forum on China-Africa Cooperation con il quale furono inclusi, oltre agli accordi di sviluppo economico, cinque principi fondamentali: rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale; patto di non aggressione; non ingerenza negli affari interni; coesistenza pacifica; uguaglianza e reciproco vantaggio. Per comprendere le dinamiche di questi rapporti, Valle riporta un dato dell’agenzia Ecofin: il commercio tra la Cina e i partner africani ha raggiunto il record di 208,7 miliardi di dollari nel 2019, 113,2 miliardi di esportazioni e 95,5 di importazioni. Per quanto concerne la Russia, il 25-26 ottobre 2019 – in occasione del summit Russia-Africa svoltosi a Soci – Putin annunciò il ritorno di Mosca nello scacchiere africano. Il Presidente russo formalizzò la cancellazione del debito (20 miliardi di dollari) accumulato nell’era comunista: investimenti, affari e grande politica costituiscono la base dei nuovi rapporti tra il Cremlino e l’Africa.
Europa grande assente
Al di là della solita retorica legata alle colpe del passato coloniale – dietro cui si celano, tra l’altro, delle ipocrite soluzioni “pacifondaie” – il rinvio al prossimo novembre del rinnovo degli accordi di Cotonou con l’Unione Africana rappresenta l’emblema del fallimento dell’Unione Europea nel Continente nero. Il motivo? L’UE propone un’agenda politica incentrata sulle migrazioni e la mobilità, temi spesso frutto di scontro e divergenze. Solo la Francia, piaccia o meno, è l’unico paese europeo che al momento sembrerebbe avere un chiaro disegno geopolitico. In tal senso si parla di “dottrina Macron” il cui primo passo consisterebbe nella revisione della cooperazione monetaria franco-africana, ossia la trasformazione del Franco Cfa in Eco.
A che punto è l’Italia?
Oltre i militari, a certificare la presenza italiana in Africa ci sono l’Eni e il Gruppo Webuild (ex Salini Impregilo). Nonostante le ultime vicissitudini giudiziarie relative alle presunte tangenti in Nigeria, il cane a sei zampe negli ultimi tempi si sta impegnando anche in iniziative improntate verso lo sviluppo di un’economia circolare. Nel 2019, invero, sono stati investiti nell’area sub-sahariana 48,6 miliardi di euro per progetti di sviluppo locale (ad esempio la salvaguardia delle foreste) e 20,8 miliardi per infrastrutture a favore delle comunità, nonché programmi di sostegno per la micro-imprenditoria. Webuild, invece, è impegnata a costruire dighe in diversi Paesi tra cui l’Etiopia la quale oggi esporta energia in Kenya, Sud Sudan e Gibuti. Insomma, si tratta di due fiori all’occhiello molto spesso dimenticati dalla nostra classe politica e sui quali ogni governo che abbia a cuore la difesa degli interessi nazionali dovrebbe puntare con molta più decisione. Il nostro futuro si gioca anche qui.
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