Di Vittorio de Pedys
La recente scalata parziale di Unicredit sulla seconda banca tedesca Commerzbank sta suscitando un dibattito notevolissimo dove le considerazioni tecniche si accompagnano alle prese di posizione politiche ed addirittura alle interpretazioni sul tema della sovranità economica nazionale.
Il fatto dirompente è stato l’annuncio a sorpresa da parte di Unicredit di aver acquistato il 4.5% delle azioni Commerzbank messe sul mercato dal governo federale tedesco, in un’operazione pubblica di dismissione, rivelando contemporaneamente anche di aver acquistato una percentuale simile sul mercato aperto, portando così la sua quota azionaria al 9,7%. La vendita delle azioni della banca da parte del governo tedesco si inquadra nella generale tendenza dei governi europei a rimettere sul mercato quote di banche che erano state rilevate a causa della crisi economica del 2008 o successive. La Commissione UE ha più volte invitato i governi che detengono quote importanti di banche private a ri-privatizzarle in tempi celeri. In Italia conosciamo bene la vicenda Monte Paschi che si trova in una situazione del tutto simile e di cui il MEF sta da tempo eseguendo la dismissione.
Ciò è tutt’altro che un caso isolato in Europa; lo Stato olandese si appresta a cedere un’altra porzione del capitale di Abn-Amro, salvata durante la crisi finanziaria del 2008 con un bailout da 22 miliardi di euro. Nlfi, il veicolo attraverso cui è gestita la quota, ha annunciato in una nota di metà ottobre, che ridurrà la sua partecipazione dal 40,5% al 30% del capitale, attraverso un piano di vendita affidato a Barclays che partirà “a breve”. La quota di Abn-Amro in mano all’Olanda, che fino ad oggi ha raccolto 10,9 miliardi dalla vendita delle sue azioni, vale circa 5,3 miliardi, a cui si aggiungono quasi 6,3 miliardi di dividendi incassati a partire dal 2011. Il governo inglese rilevò l’84% di Royal Bank of Scotland, terza banca del paese durante la crisi del 2008 investendoci 45 miliardi di sterline. Da allora ha progressivamente venduto quote della controllata Natwest in 6 tranches, l’ultima delle quali a maggio 2023 per £ 1.26 miliardi, scendendo al 38.6% e programmando di dismettere la partecipazione interamente entro il 2026 (operazione peraltro avvenuta ad un prezzo di circa a metà di quello di acquisto…). Schema simile è stato adottato dal governo inglese quando rilevò il Lloyds Banking group con un salvataggio da 20 miliardi di sterline nel 2008. La banca è stata interamente privatizzata nel 2017. Come si vede le tendenze son simili in Europa alla nostra vicenda del Monte dei Paschi ed i tempi molto lunghi. Sostenni e sostengo da tempo che la banca senese avrebbe dovuto esser ceduta ad Unicredit quando il CEO Orcel fece la sua offerta di integrazione alcuni anni fa perché ciò avrebbe significato minore accollo di oneri impropri per lo Stato; si preferì invece la strada stand-alone dopo la levata di scudi generale degli amministratori, cittadini di Siena, politici locali e nazionali, economisti che tutti gridavano alla perdita di indipendenza della banca (necessaria) e la perdita del contatto col territorio (non necessario). Percorrendo questa strada ed avendo investito negli anni somme significative (che partono dai prestiti del governo Monti) mi pare almeno doveroso non farsi pressare dalla fretta della dismissione della importante quota ancora in mano allo stato da parte della Commissione UE, ma attendere un significativo risanamento dei conti e risalita del prezzo dell’azione per evitare altre perdite di fondi pubblici. Bloomberg stima che da inizio anno i governi europei abbiano effettuato privatizzazione di titoli bancari per oltre 13 miliardi di euro, spinte dalla dinamica della forbice tassi attivi/passivi che ha molto beneficiato i conti economici e le quotazioni azionarie delle stesse.
Tornando all’operazione in discorso, nel frattempo, Unicredit ha stipulato contratti derivati che gli consentono di salire fin al 29% di Commerzbank, cioè giusto sotto la soglia di OPA, ed ha chiesto alla BCE l’autorizzazione per il prosieguo dell’acquisizione. L’operazione ha suscitato una forte opposizione sia da parte del management della banca target, che da parte politica al massimo livello, dove sia il Cancelliere Scholtz che il ministro delle finanze Lindner, si sono dichiarati fortemente contrari ad una scalata definita ostile e non concordata; contrario si dichiarato ovviamente il sindacato bancario tedesco Ver.di. Allo stesso tempo molte rilevanti figure del mondo economico si sono viceversa espresse in maniera favorevole all’operazione.
Anticipando alcune delle mie conclusioni, posso tranquillamente affermare che ha parlato chiaro l’attore principale, cioè il mercato, approvando l’operazione. Di seguito qualche dato tecnico per mostrare sia la valenza dell’operazione che la differenza di capacità gestionale. Un’altra conclusione balza agli occhi come incontrovertibile: Unicredit è una banca molto migliore di Commerzbank.
In termini di capitalizzazione di borsa, cioè quanto valgono le banche secondo i mercati finanziari, Unicredit capitalizza oltre 60 miliardi, Commerzbank solo 21 (e questo dopo esser salita molto a causa del takeover in corso) mentre, ad esempio, Deutsche bank è a 28 miliardi. E’ chiaro il voto del mercato se il target vale solo un terzo dello scalatore. In termini di assets, Unicredit ne ha circa 800 miliardi, Commerzbank 500 e Deutsche bank, per confronto, 1300; se guardiamo al numero dei dipendenti, Unicredit ne ha 69.000, Commerzbank 42.000 e Deutsche bank 90.000. Il gap dimensionale è quindi molto minore rispetto a quello del valore; il che è perfettamente confermato agli indicatori di efficienza relativa. Il rapporto di efficienza operativa cost/income di Unicredit è del 40% (ottimo) mentre Commerzbank è al 58% (molto meno); il rapporto cost/income-net-of-interest , un altro indicatore di efficienza è di 39% per Unicredit e di 59% per Commerzbank; il rapporto sulla dimensione relativa del capitale, cioè di sicurezza sistemica e affidabilità, il CET1, è di 16% per Unicredit e di 14.8% per Commerzbank; infine il rapporto Price-to-book, cioè quanto il mercato stima il valore in funzione della dimensione del capitale è di 1.5 per UniCredit e di solo 0.62 per Commerzbank. La conclusione anticipata sopra, cioè che UniCredit è una banca molto migliore ed in una ottima posizione per effettuare questa acquisizione in maniera efficace e vantaggiosa per tutti gli attori, è confermata dai dati enunciati (che mostrano come Deutsche bank sia grande ma ancora più inefficiente). Aggiungo altri due aspetti importanti che mi fanno pensare che questa operazione sia vantaggiosa per tutti gli attori. Il primo è l’andamento dei titoli in borsa, cioè il voto degli investitori. Nella maggior parte dei casi l’evidenza empirica mostra che durate un’operazione di acquisizione “ostile” fra due aziende quotate, il titolo dell’acquirente scende parecchio e quello del target sale. Ciò perché normalmente il mercato stima che le sinergie sono sovrastimate, il prezzo pagato per l’acquisizione è troppo caro, e il management sottostima le difficoltà di fusione post-deal. Nel caso in discorso ciò non è accaduto: non solo il titolo Commerzbank è salito nell’aspettativa di un aumento della quota di Unicredit da 12 a 16 euro, ma anche il titolo Unicredit sta ininterrottamente salendo perché il mercato stima, correttamente, che invece l’operazione sia accrescitiva per gli azionisti. Il titolo è oltre 40 euro al momento della stesura di questa nota.
Ciò non accade di norma nell’evidenza accumulata delle centinaia di acquisizioni che si succedono sui mercati mondiali. Le mie stime sulle sinergie possibili fra le due banche sono molto positive e praticamente ottenibili: la fusione fra Commerzbank e la controllata tedesca di Unicredit, HVB, è altamente complementare in quanto le due banche insistono su regioni geografiche delimitate chiaramente e con pochissime sovrapposizioni. Difatti HVB è presente principalmente in Baviera mentre Commerzbank lo è in Germania centrale. Inoltre, il mercato bancario tedesco è molto più frammentato di quello italiano e le due banche detengono quote di mercato non molto grandi in generale. In Germania le prime 5 banche per dimensione detengono il 34% di quota di mercato, in Italia il 48%. In altri paesi europei come Spagna Francia o Uk tale concentrazione è ancora maggiore. In Germania ci sono 1324 banche, di cui 690 sono banche di credito cooperativo e popolari, cioè sono banche piccole del territorio; 352 sono Casse di risparmio; 239 sono banche private e 6 sono di altre categorie. In Italia abbiamo 428 banche: 222 sono banche del credito cooperativo; 17 delle banche popolari; 110 sono banche private e 79 filiali di banche estere. L’aggregazione creerebbe la maggior banca tedesca, estremamente diversificata, che potrebbe beneficiare delle fabbriche di prodotti di Unicredit, principalmente nell’asset management e assicurazioni, aumentando il cross-selling in un contesto di tassi in calo, e riottenere una presenza tramite la controllata MBank nell’importante mercato polacco, che UniCredit colpevolmente abbandonò sotto la sciagurata gestione del precedente CEO, J.P. Mustier. Inoltre il capitale in eccesso di UniCredit sarebbe ben impiegato con una remunerazione molto interessante di circa il 15% (stima, includendo le sinergie) superiore alla combinazione, già eccellente, di shareholder’s yield del 13% raggiunta finora fra dividendi e buybacks , una delle migliori in Europa. Le sinergie stimate da un analista indipendente* sono di circa 650 milioni, cioè circa il 10% della base costi dell’istituto tedesco. A mio parere tali sinergie potrebbero in realtà essere maggiori se l’operazione diventasse amichevole, se si procedesse con celerità e si adottasse una politica del personale, che ovviamente andrebbe ridotto in Germania, come quella seguita finora di concordare gli esodi con il sindacato in cambio di nuove assunzioni. Per quanto possa sembrare paradossale, visto che parliamo di Germania ovvero della culla europea di co-gestione aziendale-sindacale, in Germania dal 2010 ad oggi sono stati licenziati circa 122.000 bancari mente in Italia la riduzione del numero dei dipendenti del settore è avvenuta sempre in maniera volontaria, con accordi di esodo o pensionamento, finanziata dal fondo pagato dalle banche che agisce da ammortizzatore sociale e con accordi di immissione di giovani. L’opposizione del sindacato tedesco dei bancari Ver.di all’operazione è stata infatti duramente criticata dal maggior esponente sindacale italiano, il segretario generale della Fabi Lando Sileoni, a nome anche delle altre sigle proprio su queste basi, ed anzi criticando apertamente l’omologo tedesco, Frederick Werning, che siede nel Consiglio di amministrazione di Commerzbank in rappresentanza dei lavoratori senza essere un dipendente. Trovo pure estremamente significativo che il sindacato europeo dei bancari, Unifinance, di cui fanno parte sia Fabi che Ver.di, non abbia commentato l’operazione
Si può aggiungere che questa diversa dinamica del personale bancario è avvenuta in due paesi dove, in Italia, ci sono state decine e decine di aggregazioni bancarie, mentre in Germania l’ultima degna di nota è stata la fusione fra Commerzbank e Dresdner bank nel 2008.
Vediamo ora chi si oppone all’operazione e con quali argomenti. Innanzi tutto, il management di Commerzbank, che ha nominato a seguito della notizia della scalata, la direttrice finanziaria Bettina Orlopp al ruolo di amministratore delegato. La Orlopp si è affrettata a definire ostile e non accettabile l’operazione di fusione con HVB opponendo le consuete difese di indipendenza, sovrapposizione e licenziamenti. Le considerazioni svolte sopra dovrebbero evidenziare la debolezza di questa posizione avente come obiettivo il mantenimento di uno status quo largamente inefficiente e, sostanzialmente, una rendita di posizione, di cui fanno le spese tutti gli stakeholder della banca. La Orlopp ha poi giustificato la sua opposizione con la mancata unificazione del mercato dei capitali europei in termini di fondo per le risoluzioni di crisi bancarie e la mancanza di una regola comune per le garanzie dei depositi bancari (secondo e terzo pilastro dell’unione bancaria). Queste due considerazioni sono valide, tanto che perfino il rapporto Draghi raccomanda una accelerazione su entrambi i fronti. E certamente una grossa operazione trans-frontaliera di integrazione fra due grandi banche europee sarebbe un passo avanti proprio in questa auspicata direzione. Mi permetto di sottolineare che, finora, il più grande ostacolo alla uniformazione delle garanzie sui depositi bancari è stata proprio la posizione della Germania. In ogni caso, quantunque l’armonizzazione dei mercati dei capitali non sia perfetta, ciò non ha impedito finora acquisizioni transfrontaliere di banche in Italia come il caso di BNP-Paribas che ha acquisito il 100% di BNL oppure le acquisizioni di quote di controllo da parte di Credit agricole del gruppo Cariparma (che ha rilevato una lunga serie di Casse di risparmio locali) e di quote parziali in Popolare di Sondrio ed in Banca Popolare di Milano. Inoltre, va sottolineato come le due principali banche italiane, Intesa ed UniCredit hanno azionariato a larga maggioranza estero, in mano ad investitori istituzionali non residenti. Il governo federale tedesco, sia per bocca del cancelliere Scholtz che del ministro delle finanze Lindner, ha aggiunto un peso politico importante nell’opporsi alla fusione in questione. Il ministro delle Finanze si è dichiarato “sorpreso” della mossa di UniCredit che ha definita “non concordata”. A mio pare si tratta di posizioni di retroguardia a curiosa impronta sovranista che denotano una posizione molto debole sul piano interno e ad uso dell’elettorato che scarsamente supporta il governo in carica. La minaccia di aumentare i livelli disclosure su partecipazioni tramite derivati, è poca cosa sia in quanto retroattiva sia quanto ad efficacia. L’amministratore Andrea Orcel ha raccontato pubblicamente di essersi recato più volte in Germania questa estate ad incontrare funzionari del ministero federale delle Finanze, proprio per parlare di questa operazione; pertanto, certe affermazioni hanno le gambe corte, ed inoltre dimostrano un disprezzo delle regole di mercato che meritano maggior rispetto da parte di alcuni degli attori in questa vicenda. Da dibattere è la questione tecnica che è stata opposta dal governo tedesco ed altamente ipotetica di un fallimento di UniCredit in funzione del problema della alta quantità di titoli di stato italiani che detiene; si sostiene che il contribuente tedesco non deve esser chiamato a ripianare perdite “italiane” e che ciò sarebbe impossibile evitare in caso di fusione. Si tratterebbe cioè di obbligare gli obbligazionisti ed i correntisti tedeschi alla regola del bail-in ed in seconda battuta del governo tedesco in caso di risoluzione precauzionale. La questione ha un risvolto strumentale ed uno invece reale. L’ipotesi di fallimento della banca è, pur non impossibile, certamente molto improbabile, visto sia la solidità di UniCredit come dotazione di capitale stand-alone, sia il fatto che l’agenzia di rating Moodys ha annunciato un possibile upgrade portandolo a Baa2, in caso di successo dell’acquisizione. Tale rating sarebbe superiore a quello della Repubblica italiana, e la cosa mi sembra molto significativa. Della stessa opinione di Moodys, anzi ancor più costruttiva, sembra essere Fitch, la quale il 30 ottobre 2024 ha alzato il rating di Unicredit a BBB+ con outlook positivo, ponendolo appunto un notch sopra quello della Repubblica italiana; secondo l’agenzia, questo risultato è dovuto alla posizione di forza ottenuta in questi ultimi anni dalla banca nel panorama nazionale, sostenuta da un’efficace diversificazione in economie con buoni risultati e in crescita. La stessa agenzia ha anche migliorato l’outlook della Repubblica italiana da stabile a positivo; dunque le perplessità derivanti da un rischio “paese” a carico di contribuenti tedeschi appare assolutamente remota . Un problema reale, che prescinde da questa operazione ma che da essa viene richiamato, è invece la mancata adesione dell’Italia al meccanismo del MES, unico Stato in Europa a non averne ratificato l’approvazione. La commissione UE ed altri stati periodicamente richiedono all’Italia di aderire per completare appunto un tassello che è importante all’interno del secondo pilastro dell’unione bancaria menzionata sopra; difatti il MES può essere utilizzato con le sue dotazioni di capitale come primo fondo di risoluzione per le crisi bancarie. Infine, della opposizione dei sindacati si è trattato sopra.
L’operazione è correttamente al vaglio delle istituzioni ad essa preposte. Innanzi tutta la Bafin in Germania, la quale non ha finora espresso una posizione di contrarietà. Il vero decisore è però ovviamente la BCE a Francoforte, che si esprimerà formalmente entro fine anno, dopo aver esaminato approfonditamente tutti gli aspetti tecnici e strategici della proposta. Vale la pena sottolineare che i suoi massimi vertici si sono peraltro già espressi favorevolmente: la presidente Christine Lagarde affermando che le operazioni transfrontaliere fra banche sono auspicabili per ridurre il gap con le gigantesche banche Usa, il vicepresidente Luis de Guindos richiamando la necessità sempre e comunque di un approccio “europeo”; ma perfino Claudia Buch (che è tedesca), presidente della vigilanza bancaria, non vede ostacoli sostanziali alla proposta. Dominique Laboureix, presidente del Comitato di risoluzione unico, l’autorità centrale di risoluzione delle crisi dell’Unione bancaria si è definito a favore affermando che anche una ipotetica crisi Unicredit-Commerzbank può essere gestita. Qui parliamo dell’ente responsabile della preparazione e della gestione delle crisi bancarie, il cosiddetto secondo pilastro dell’Unione bancaria già menzionato. Ancor più interessante la posizione degli industriali tedeschi, i quali per bocca di Cristoph Ahlaaus, presidente dell’associazione delle piccole e medie imprese tedesche, si sono dichiarati favorevoli ad una maggiore efficienza delle banche, che vuol dire tassi e trattamenti migliori, diversamente da quanto auspicato dalla Orlopp. Per non parlare del favore espresso da Lawrence Fink, CEO del fondo Blackrock, il più importante del mondo che è primo azionista di UniCredit (oltre che di quasi ogni altra impresa in Europa ed in Usa) e lo è anche di Commerzbank.
Quale sarà il futuro sviluppo di questa situazione, attualmente in fase di attesa? Dopo questa lunga disamina l’opinione di chi scrive è che l’operazione si farà per tre ordini di motivi: le istituzioni europee sono in massima parte favorevoli, l’operazione presenta risvolti di grandi miglioramenti di efficienza per l’intero sistema economico ed infine quello più importante perché il mercato la apprezza votando in maniera incontrovertibile a suo favore con il movimento dei prezzi. Naturalmente la opposizione del governo tedesco non va sottovalutata. Di fatto ove l’operazione dovesse decadere per rinuncia da parte di Orcel a proseguire nell’acquisizione, il premio attuale sui titoli Commerzbank si azzererebbe tempestivamente; scenderebbe temporaneamente forse anche il titolo Unicredit ma la sua superiore capacità di generazione di cassa, unita al notevole capitale in eccesso dovrebbero continuare a supportare la crescita delle quotazioni. Immagino che una volta giunta l’approvazione delle autorità bancarie, le discussioni verteranno sui tagli occupazionali, sulle eventuali sovrapposizioni, visto che si creerebbe la maggior banca tedesca, sul ruolo del top management e sulla sede societaria. Quest’ultimo punto riveste importanza doppia; da un lato perché le autorità politiche italiane non gradirebbero di certo che la sede della nuova banca si spostasse da Milano a Francoforte, visto che è Unicredit a comprare; dall’altro è un dato di fatto che la fusione HVB-Commerzbank creerebbe la più grande banca tedesca ed al tempo stesso i volumi di affari dell’intero gruppo sarebbero maggiori in Germania che non in Italia.
Quali sono i maggiori azionisti delle due aziende? La prima cosa che balza all’occhio e con la quale dobbiamo fare i conti noi italiani è che Unicredit, quantunque banca storicamente italiana e con sede a Milano, non è una società a maggioranza italiana. Difatti oltre l’85% delle quote azionarie sono detenute da soggetti non residenti e le famose fondazioni bancarie italiane, destinate a mantenere il radicamento territoriale con la società civile hanno quote insignificanti. Le percentuali importanti sono tutte in mano ad investitori istituzionali. Vale la pena ricordare che un quadro non dissimile è presente, mutatis mutandis, nell’azionariato della più grande banca italiana, cioè Intesa.
Possiamo pure noi fare “il tifo” per questa operazione come prodromica di una maggiore integrazione del mercato europeo dei capitali, coerentemente con il piano Draghi appena presentato sulla competitività europea. Ma ove questa fosse appunto un’operazione “apripista” dovremmo esser pronti a dover fronteggiare, in un futuro molto vicino, altre operazioni probabilmente di segno opposto. La più importante, per fare un esempio: cosa impedirebbe ad Allianz, la maggiore società di assicurazioni europea, che è tedesca, di rilevare le Generali? Difatti Allianz capitalizza 120 miliardi mentre Generali 41 e Generali è controllata da un patto guidato da Mediobanca con meno del 20%. La stessa Mediobanca è controllata da due famiglie dove la maggiore ne ha il 20%. La seconda società assicurativa italiana, Unipol, ne capitalizza solo 9, mentre Axa (francese) ne capitalizza 74 e Zurich (svizzera 76). Tutto ciò per dire che il capitalismo familiare ed amicale italiano degli anni passati ha consentito la sopravvivenza di aziende, alcune anche ottime, ma certamente troppo piccole in termini di capitale e apertura sui mercati internazionali. Essendo questi ultimi globali si è probabilmente destinati a fare, come sempre, la parte della preda e non del cacciatore.
Roma, novembre 2024
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