Di Marco Bachetti
“Il partito nuovo che abbiamo in mente deve essere un partito nazionale italiano, cioè un partito che ponga e risolva il problema dell’emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione”. Con queste parole pronunciate ai quadri dell’organizzazione romana del partito, a pochi mesi di distanza dalla svolta di Salerno dell’aprile ‘44, il segretario del Pci Togliatti tracciò i caratteri del “nuovo partito” rinato sulle ceneri del vecchio Partito comunista d’Italia fondato a Livorno il 21 gennaio del ‘21. Nel bel mezzo della guerra di liberazione combattuta in prima linea dai partigiani comunisti, il segretario del partito appena rientrato dopo gli anni di esilio in Russia girava l’Italia imponendo ai combattenti delle Brigate Garibaldi, affiliate al Pci, di indossare il fazzoletto tricolore insieme a quello rosso. Colui il quale volesse studiare la storia del comunismo italiano da una prospettiva politologica non potrebbe esimersi da un’attenta analisi della simbologia, che costituiva un aspetto fondamentale per i partiti politici del Novecento immersi in quel clima culturale per cui Del Noce coniò la felice definizione di “fase sacrale della secolarizzazione”, dominata da ideologie che assumevano le sembianze di vere e proprie religioni politiche fondate sulla mobilitazione delle masse. I simboli, le immagini, i canti, i motti erano parte integrante della vita delle persone in un’epoca in cui la dimensione pubblica, dunque la sfera politica, risucchiava la dimensione privata e il partito, specie per i militanti socialisti e comunisti, si sostituiva alla Chiesa quale depositario della promessa messianica di una società senza più padroni e sfruttati, la “futura umanità” evocata dall’inno dell’Internazionale. C’è dunque da riflettere sull’evoluzione del simbolo del Partito comunista: si passa dalla triade simbolica del socialismo adottata nel ’21 con la falce e il martello circondata dalla ghirlanda di spighe di grano e sullo sfondo il sol dell’avvenire all’accostamento del tutto inconsueto tra la bandiera rossa recante la falce e il martello e la bandiera tricolore italiana scelte quali simboli del “nuovo partito” sul finire della seconda guerra mondiale. La questione si fa ancora più curiosa se notiamo altresì l’evoluzione del simbolo dell’altro partito della classe operaia. Il Psi nel ‘21 lasciò il proprio simbolo originario agli scissionisti comunisti e per distinguersi da loro introdusse il nuovo elemento del libro aperto sotto la falce e il martello per sottolineare il ruolo fondamentale della cultura e dell’istruzione per il partito socialista che negli anni passati si era tenacemente battuto contro l’analfabetismo di massa. Quando poi dopo la caduta del regime fascista il Pci scelse il suo nuovo e inedito simbolo, i socialisti si riappropriarono del sol dell’avvenire che avevano lasciato in concessione ai comunisti nel ’21. Studiare la simbologia dei partiti nella sua evoluzione storica è importante perché la scelta dei simboli non è casuale ma dietro ad essi si nasconde sempre una decisione di carattere politico.
La svolta
Il nuovo partito comunista che rinasce sul finire del ’43 si distingue dal partito del ’21 perché nel frattempo si è consumata una profonda frattura nel mondo comunista tra trotzkismo e stalinismo, ossia tra la teoria della rivoluzione mondiale permanente e la divergente prospettiva di costruire il “socialismo in un solo paese”. Tale divisione maturata nel contesto sovietico si ripercosse in Italia nella rottura tra il trotzkista Bordiga, fondatore e primo leader del Partito comunista d’Italia del ’21, e gli altri dirigenti comunisti come Gramsci e Togliatti i quali si schierarono dalla parte di Stalin. Bordiga fu prima emarginato e poi espulso dal partito che continuava a operare nella clandestinità, durante gli anni del regime fascista, e quando nel ’43 il Pci rinacque sotto la direzione di Togliatti, quegli contribuì alla fondazione del Partito comunista internazionalista di orientamento trotzkista il quale adottò lo stesso simbolo del partito del ’21 contrapponendosi al nuovo Pci, accusato di aver tradito gli originari ideali internazionalisti e rivoluzionari. Togliatti scelse la via della collaborazione con gli altri partiti dapprima per combattere l’occupazione nazista e poi per costruire il nuovo Stato democratico, accantonando così la via rivoluzionaria che avrebbe significato una nuova guerra civile e una consistente minaccia per l’unità nazionale già messa a dura prova nel biennio della guerra di liberazione. La storiografia dominante attribuisce questa scelta, nota ai più come la svolta di Salerno, ad un previo accordo tra il segretario del Pci e Stalin, il quale temeva la reazione delle forze alleate angloamericane per evitare che l’Italia cadesse sotto la sfera di influenza sovietica e soprattutto avrebbe ottenuto maggiori vantaggi dalla integrazione democratica di un forte partito comunista, fedele a Mosca, in un paese come l’Italia che si sarebbe rivelato fondamentale per gli equilibri geopolitici futuri. Togliatti dovette affrontare la diffidenza dei quadri dirigenti del partito che avevano guidato le formazioni partigiane, come i due vicesegretari Longo e Secchia, i quali non avevano rinunciato alla prospettiva dell’insurrezione armata per la rivoluzione popolare del comunismo. Qualche anno più tardi giustificò la sua scelta come l’unica possibile per preservare l’unità nazionale ed evitare che parte del paese cadesse in mano alle truppe angloamericane e alle forze reazionarie, sacrificando dunque la lotta per il socialismo alla difesa della libertà e dell’indipendenza nazionale. Se Togliatti avesse effettivamente a cuore l’integrità del patrio suolo e la difesa degli interessi nazionali, come emerge da molti suoi discorsi e articoli di quel periodo, ovvero se la sua posizione fosse conseguenza di un abile calcolo politico e dell’obbedienza alle direttive di Stalin, è questione assai dibattuta e su cui si interrogarono anche gli esponenti politici di quel tempo, molti dei quali anche all’interno dello stesso partito comunista si convinsero che ci fosse una sorta di “doppia linea” e che alla tattica moderata e rassicurante dovesse associarsi una strategia nascosta di impronta rivoluzionaria. Dal mio punto di vista, il progetto politico di Togliatti teneva insieme la dovuta considerazione per gli indirizzi che giungevano da Mosca con una sua personale visione incline alla conciliazione tra le due categorie di classe operaia e nazione per superare l’equivoco di un’incompatibilità tra gli interessi del proletariato e gli interessi nazionali di cui si era fatto portatore il socialismo massimalista del primo dopoguerra. Interessanti in tal senso sono le riflessioni del giornalista cattolico Trabucco che in quei giorni del ’44 ci parla, senza nascondere una certa sorpresa, della ‘conversione’ di Togliatti: “perché 25 anni or sono il comunismo italiano e il padre suo, il socialismo, negavano patria ed esercito, religione e morale? Non sarebbe nato il fascismo e la via italiana avrebbe avuto altro corso. Perché il comunismo italiano acquistasse il buon senso di cui dà prova oggi per bocca di Togliatti, ci sono voluti 20 anni di tirannia e questo spaventoso bagno di sangue. Ma se tutto è bene quel che finisce bene, noi vogliamo prendere in parola Togliatti e aspettarlo a suo tempo al traguardo delle realizzazioni pratiche. Se i comunisti sono sinceri si potrà fare molto e proficuo lavoro a favore del popolo.” Se c’è dunque un merito che va riconosciuto al Pci e in particolare al suo segretario Togliatti è in questa ricerca di una riconciliazione tra classe e nazione, tra lotta operaia e sovranità, tra rivoluzione sociale e indipendenza nazionale.
Secondo Togliatti, “la classe operaia non è stata mai estranea agli interessi della nazione” e la lotta per l’integrazione delle masse nella vita pubblica non può disconnettersi dalla lotta per la libertà e l’indipendenza nazionale, viene anzi affermata la funzione nazionale delle classi popolari di risanare e rinnovare l’Italia, sostituendosi alla borghesia nella conduzione dello Stato. Il nuovo partito comunista nelle intenzioni di Togliatti è un partito della nazione e nulla ha da spartire con il vecchio Psi massimalista di Lazzari e Menotti Serrati, il partito che durante la prima guerra mondiale ordinava ai propri militanti “né aderire né sabotare” e che emarginava il sindaco di Milano Caldara, socialista riformista, per aver messo in campo una fitta rete di assistenza pubblica a sostegno dei reduci mentre innalzava e faceva eleggere in Parlamento il massone e disertore Misiano. La volontà di tenere assieme questione sociale e questione nazionale portò dunque il Pci di Togliatti a collaborare con gli altri partiti democratici, in particolare con gli altri due partiti di massa, ossia il proprio fratello maggiore Psi e la Dc. Nel dicembre ’45 Togliatti appoggiò la sostituzione dell’azionista Parri con il democristiano De Gasperi come capo del governo, optando dunque per una guida più moderata, perché De Gasperi era il segretario di un partito come la Democrazia cristiana la quale, a differenza del Partito d’Azione a base borghese e composto prevalentemente da intellettuali e professori, aveva basi di massa. Ciò rendeva De Gasperi più accetto ai comunisti rispetto a “quegli uomini politici cosiddetti indipendenti, che non rendono conto del loro operato altro che ai loro quattro amici e alla loro vanità”. Il Pci costituì nel secondo dopoguerra uno dei tre pilastri, insieme al Psi e alla Dc, della politica di integrazione democratica delle masse per mezzo del lavoro, inteso come forza propulsiva di una società di uomini liberi e politicamente coscienti. Quella classe politica ebbe il merito di democratizzare e politicizzare le masse, che il fascismo aveva nazionalizzato, e associare così, alla coscienza di autodeterminarsi come nazione, la coscienza di autodeterminarsi come popolo. La collaborazione tra i tre partiti con basi di massa, la collaborazione tra De Gasperi, Togliatti e Nenni, fu decisiva per costruire uno Stato democratico fondato sul lavoro e arginare l’influenza esterna di quello che De Gasperi definì il “quarto partito”, il partito del denaro e del potere economico, il quale pur non avendo molti elettori era fornito di una potenza economica tale da paralizzare e vanificare ogni sforzo politico. A dispetto delle divergenze e della scelta atlantista che nel ’47 portò De Gasperi a rompere con comunisti e socialisti, non venne mai meno la capacità di comprendere quando fosse opportuno allentare la tensione e regolare il conflitto politico. Il voto comunista a favore della costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi per preservare il dialogo con il mondo cattolico e soprattutto il messaggio televisivo di Togliatti dal letto d’ospedale dopo l’attentato in cui invitò alla calma e alla distensione degli animi sono una riprova di questo clima, nel quale lo scontro politico-ideologico pur molto duro avveniva all’interno di un terreno di comune condivisione di un destino nazionale. D’altro canto anche De Gasperi diede prova di spirito unitario e collaborazione con l’avversario politico, opponendosi sempre alla richiesta della corrente più reazionaria del suo partito e della Chiesa di mettere il partito comunista fuorilegge, nonché rinunciando nel ’53 al riconteggio delle schede elettorali mancando solo 57mila voti per ottenere il premio di maggioranza a fronte di un milione di voti contestati. Noi comunisti non siamo diversi dagli altri partiti, non siamo migliori ma siamo come loro e con essi dobbiamo collaborare. Questa lezione di Togliatti finirà per sbattere contro il muro della questione morale che il suo successore alla guida del Pci Berlinguer utilizzerà come una clava per recuperare il terreno elettorale perso dopo il picco delle elezioni del ’76 e delegittimare gli altri partiti, accusandoli di immoralità nella gestione della cosa pubblica e chiamandosi fuori dagli scandali per corruzione e finanziamento illecito che da diversi anni colpivano i partiti di governo. Il Pci berlingueriano degli anni ’80 si tramutò nel “partito degli onesti”, formando una nuova generazione di politici di sinistra crogiolatisi nella loro presunta superiorità morale e intellettuale. Si ruppe così quel fronte comune dei partiti che aveva difeso nei decenni precedenti l’autonomia e il primato della politica, riuscendo a limitare le incursioni di altri poteri di natura economico-finanziaria e mediatico-giudiziaria, i quali dal crollo del sistema dei partiti dopo la fine della guerra fredda trassero enorme beneficio a danno dell’Italia, della sua sovranità e dunque della capacità democratica di tener aperta la discussione circa la praticabilità dei fini della libera azione politica.
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