Di Filippo Del Monte
Il centenario dell’Impresa di Fiume (1919/1920-2019/2020) ha offerto la possibilità di tornare a riflettere sugli aspetti più e meno noti di una vicenda iconica del Novecento italiano ed europeo.
Tuttavia poco spazio è stato dedicato – e c’era da aspettarselo – a chi l’occupazione di Fiume la contrastò non solo con le scelte (spesso “non scelte”) politiche ma anche contestandone la base ideale e gli sviluppi programmatici.
Una di queste figure è quella di Francesco Saverio Nitti, il “Cagoja” di D’Annunzio, presidente del Consiglio tra il giugno del 1919 e quello del 1920. Restringere il campo d’azione di Nitti alla questione fiumana non rende giustizia alle sue idee sull’intervento pubblico in economia, sullo sviluppo industriale e sulla riforma della pubblica amministrazione; idee che prendevano spunto, rimodellandole sulla realtà italiana di inizio ‘900, dal “socialismo della cattedra” tedesco e che ebbero in sostanza sviluppo poi grazie a due suoi collaboratori come i socialisti riformisti Vincenzo Giuffrida ed Alberto Beneduce, quest’ultimo futuro consigliere economico di Mussolini durante il fascismo.
Il nittismo, l’intervento pubblico e lo sviluppo industriale
La presenza costante di un gruppo di collaboratori ben rodato a sostegno di Nitti, fin dal suo insediamento quale ministro dell’Agricoltura nel 1911 e poi come ministro del Tesoro con Vittorio Emanuele Orlando durante la Grande Guerra, permette di affrontare un discorso sul “nittismo”.
Il nittismo viene identificato come una politica di sviluppo industriale sostenuta dall’apporto di capitali pubblici. In altre parole, per quella specifica declinazione del liberalismo, è lo Stato a dover sostenere la crescita industriale nazionale secondo una concezione di sviluppo del sistema economico determinato dalla presenza sulla scena di grandi monopoli pubblici in grado di allocare risorse meglio dei trust privati.
Le proposte di Nitti per la nazionalizzazione dell’energia elettrica del 1903 e quella per il piano di sviluppo industriale di Napoli del 1904 rientrano appieno nella sintesi politica tra giolittismo e radicalismo meridionalista che nell’istituzione dell’Ente Volturno per la produzione di energia elettrica e nella fondazione dell’impianto siderurgico ILVA di Bagnoli trovò la propria consacrazione. Tuttavia è bene ricordare che, nonostante il saggio nittiano “Napoli e la questione meridionale” (L. Pierro Editore, Napoli, 1903) avesse costituito la base teorico-tecnica dalla quale Giolitti aveva preso spunto per l’implementazione delle politiche industriali partenopee, sussisteva una differenza sostanziale tra la concezione politico-economica dello statista piemontese e quella dell’economista di Melfi: tra il liberalismo empirico di Giolitti ed il radicalismo di Nitti, l’elemento di tensione si ravvisa in una più elastica spinta del secondo a favore dell’azione pubblica rispetto all’iniziativa privata.
Eppure non mancarono, come nei casi del 1903 e 1904, momenti di collaborazione tra giolittiani e nittiani, specie in una fase di congiuntura economica internazionale favorevole alle politiche espansive e che a Nitti diede lo spunto per teorizzare un nuovo ruolo dello Stato rispetto alla produzione e gestione delle fonti energetiche: nel capitolo “La forza motrice a buon mercato” (pp. 124-140) di “Napoli e la questione meridionale” Nitti ipotizzò che «se lo Stato producesse la forza al massimo buon mercato possibile e la vendesse al prezzo di costo, agirebbe come ha agito costruendo strade; non solo non socializzerebbe l’industria, ma le permetterebbe di seguire un processo inverso». Un “processo inverso” che era possibile già individuare nell’impostazione che Nitti aveva dato alla questione della gestione pubblica delle fonti idriche nella Legge speciale per Napoli, nella quale propose di affidare ad un ente pubblico di nuova costituzione e non direttamente al comune l’amministrazione del servizio. Questo perché Nitti ravvisava una differenza tra l’impulso che l’azione pubblica poteva dare allo sviluppo dei servizi e la loro “gestione diretta” da parte dello Stato che l’economista lucano identificava quale “socializzazione” da combattere.
L’intervento pubblico in economia per Nitti era senza dubbio un’opportunità, ma andava circoscritto entro i precisi limiti della funzione regolatrice dello Stato sulle questioni d’utilità sociale, senza travalicare la sfera privata degli interessi né favorire l’espansione a dismisura degli apparati pubblici. Sulla spinta della critica anti-protezionista del meridionalista Giustino Fortunato e delle teorie elaborate dall’economista liberista e radicale Antonio De Viti De Marco, Nitti teorizzò un nuovo modello di ente pubblico che avrebbe dovuto adeguarsi a una visione produttivistica in grado di reggere il confronto con il settore privato, con dipendenti che non venivano equiparati a impiegati dello Stato, ma assunti con contratti a tempo determinato, rescindibili e rinnovabili. A questi enti si sarebbe dovuta affidare la gestione dei servizi, svincolando lo Stato dalle inefficienze degli apparati pubblici e dagli interessi dei monopoli privati.
Ugualmente, l’idea dei monopoli fiscali, al fine di assicurare un equilibrio sul mercato dei prezzi e un supporto all’intero comparto produttivo, come nel caso della proposta di un monopolio statale del petrolio, aveva l’obiettivo di mettere all’angolo proprio il monopolismo parassitario dei privati: «La finanza dell’avvenire – dichiarava Nitti alla Camera nella seduta del 16 marzo 1907 – si baserà appunto su grandi monopoli di Stato e sopra alcune grandi imposte generali sul reddito».
Da queste premesse, Nitti e Beneduce diedero vita nel 1912 all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA), rispondente, secondo quanto scritto da Paolo Varvaro, alla necessità di mettere in piedi un grande istituto di risparmio sottratto all’invadenza dei capitali esteri e alla servitù delle grandi banche private; una struttura operativa in grado di allargare le potenzialità della crescita economica, di indirizzarne il flusso verso i settori strategici oppure in funzione della riduzione degli squilibri territoriali. L’interesse nazionale si combinava quindi con una scelta politica che elevava la credibilità dello Stato a garanzia sia del risparmio privato che dell’iniziativa produttiva. Di pari passo, spiega Franco Bonelli, con la costituzione dell’INA lo Stato si dotava di mezzi alternativi a quelli fiscali, sfruttando in proprio le possibilità del mercato, per portare avanti i progetti di sviluppo, costituendone la forza trainante ed attivando tutte le potenzialità del capitale umano e del progresso tecnico (istruzione, opere pubbliche, elettricità), scegliendo i settori e le aree geografiche del suo intervento in un’ottica di lungo periodo.
La fondazione dell’INA aprì la strada ad una “via italiana al Kathedersozialismus” impostata da Nitti, Beneduce e Giuffrida e basata sulla costituzione di grandi istituti di credito pubblici destinati a finanziare interi comparti produttivi con l’obiettivo di modernizzarli. Esempi di questo tipo sono l’Istituto Nazionale di Credito per la Cooperazione (1913) destinato al credito speciale per l’agricoltura ed alla trasformazione in chiave “produttivistica” del settore; l’Opera Nazionale Combattenti (1917) per l’assistenza finanziaria di combattenti e reduci; il Consorzio di Credito per le Opere Pubbliche nel primo dopoguerra che, sotto la direzione di Beneduce durante il fascismo, si dedicò ai settori stradali, portuali, ferroviari, alla bonifica agraria ed alle opere pubbliche di comuni e province.
L’Opera Nazionale Combattenti
In particolare per quel che riguarda l’Opera Nazionale Combattenti (ONC) occorre aprire una parentesi. Nata nel 1917, all’indomani di Caporetto, su impulso di Nitti, all’epoca ministro del Tesoro, e di Beneduce, consigliere delegato dell’INA tornato dal fronte l’anno prima dopo aver combattuto quale ufficiale del genio, l’ONC doveva essere l’ente destinato ad affrontare il reinserimento dei reduci nella vita civile al termine del conflitto attraverso la formazione, l’assistenza finanziaria e le bonifiche agrarie utilizzando i proventi delle assicurazioni contro i rischi da eventi bellici che i soldati stipulavano a guerra in corso. In particolare si prevedeva una strategia di investimento sul settore agrario, con la costituzione di un patrimonio terriero da mettere in valore eseguendo tutte le necessarie opere tecniche e di bonifica per avviarne la colonizzazione. Vi erano contenuti in termini essenziali i principi esecutivi di un “riformismo nazionale” che, attraverso una mediazione diretta tra masse rurali e Stato, si proponeva di contrastare i limiti produttivi del latifondo e della piccola proprietà contadina, sulla spinta di un processo di sviluppo tecnologico che avrebbe dovuto favorire una trasformazione sociale dell’Italia rurale in chiave produttivistica.
Il “riformismo nazionale” sostenuto nel dopoguerra, nello specifico, da parlamentari ed intellettuali dell’Unione Democratica (l’alleanza tra Partito Liberale Democratico Italiano e Partito Democratico Sociale Italiano), entrò in crisi a causa dell’azione diretta dello squadrismo fascista nella questione agraria ma poi fu alla base del Piano di bonifica integrale promosso dalla ONC ed affidato, non a caso, all’ex democratico-sociale e collaboratore di Nitti per la politica forestale Arrigo Serpieri durante il regime.
Una nuova strada economica, dalla Grande Guerra al Fascismo
Un altro elemento fondamentale per comprendere il modello politico del “riformismo nazionale” è sicuramente il programma dei nittiani nel corso della Grande Guerra. Al contrario dei liberali giolittiani, arroccati su istanze neutraliste, il gruppo nittiano nel 1915 sostenne l’ineluttabilità da una parte e la necessità dall’altra dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco delle potenze dell’Intesa secondo gli ideali dell’interventismo liberal-democratico e risorgimentale. I nittiani ricoprirono nel corso del conflitto ruoli di primo piano: Vincenzo Giuffrida fu posto a capo dell’Ufficio Temporaneo per l’Approvvigionamento del Grano (UTAG), struttura essenziale per coordinare la politica degli approvvigionamenti sia per i militari al fronte che per la popolazione; Alberto Beneduce fu volontario e decorato di guerra per poi ricoprire la carica di consigliere delegato INA a partire dal 1916 e lavorare alla fondazione della ONC; Arrigo Serpieri fu anche lui volontario ed ufficiale del genio al Comando Supremo studiando le questioni agrario-forestali dei territori occupati e lavorando poi alla Commissione italiana per le riparazioni di guerra a Versailles durante le trattative di pace. Dunque l’intero staff di Nitti durante il conflitto era stato parte o addirittura diretto uffici politico-militari importantissimi per il funzionamento dell’economia di guerra e per la mobilitazione industriale del Paese.
Lo stesso Nitti fu ministro del Tesoro nel governo di Vittorio Emanuele Orlando riuscendo a tamponare gli effetti nefasti della sconfitta di Caporetto sull’economia nazionale e concorrendo in maniera determinante alla tenuta del “fronte interno” fino alla vittoria del 1918. Emerso già nei primi mesi della guerra, il problema del ruolo dello Stato nello sviluppo economico e nella mobilitazione totale del sistema industriale fu affrontato da Nitti negli ultimi mesi del conflitto, quando già si stava pensando alla transizione tra l’economia di guerra e quella di pace. La scelta politica per favorire la transizione ricadde sull’utilizzo degli strumenti dirigisti dell’economia di guerra che avevano la funzione di creare un “capitalismo organizzato” al servizio degli interessi nazionali. Il progetto di organizzazione industriale del Ministero del Tesoro datato 1918 attribuiva allo Stato una serie di funzioni che andavano dalla distribuzione dell’energia e delle materie prime, alla collocazione dei prodotti sulla base dei prezzi concordati, alla risoluzione di controversie relative ai rapporti economici tra le aziende. Il “riformismo nazionale” prese dunque forma proprio nel corso della Grande Guerra distaccandosi dalla tradizione liberale per combattere l’individualismo economicista ed indirizzare l’economia verso forme associative. Ai nazionalisti i nazional-riformisti erano accomunati dalla volontà di rinnovare l’apparato statale e di incanalare lo sviluppo economico per finalità di potenza nazionale; allo stesso tempo però erano convinti fautori di un processo democratico di modernizzazione del Paese, lontano dagli schemi della “modernizzazione autoritaria” preconizzata ed auspicata dall’ANI e dunque da una interpretazione differente della crisi innescata dalla guerra nel rapporto tra Stato liberale e società di massa.
Nelle Elezioni politiche del 1919 i due nittiani Giuffrida e Beneduce furono eletti deputati nelle liste del Partito Socialista Riformista Italiano – Unione Socialista (PSRI-US), confermando la forza, anche politica e non solo intellettuale, di questo gruppo eterogeneo. A seguito delle delusioni della pace e delle difficoltà economico-sociali del dopoguerra, i nittiani volsero lo sguardo al dibattito estero sugli sconvolgimenti causati dal conflitto arrivando a considerare le teorie dell’economista britannico John Maynard Keynes quali riferimenti validi anche per la realtà italiana. Nella prefazione italiana a “Le conseguenze economiche della pace” (J.M. Keynes, Fratelli Treves Editori, Milano, 1920) Vincenzo Giuffrida mise in evidenza l’impossibilità di tornare alle condizioni prebelliche visto lo sconvolgimento radicale determinato dalla guerra. Alla ricerca di soluzioni nuove Giuffrida aveva proposto anche su “Critica Sociale”, rivista della corrente riformista del PSI, di mantenere sotto il controllo statale la gestione degli approvvigionamenti scontrandosi duramente con l’economista liberista Luigi Einaudi, all’epoca esponente del Gruppo Nazionale Liberale di Roma assieme al filosofo Giovanni Gentile ed allo storico Gioacchino Volpe.
Anche Nitti, come aveva dichiarato alla Camera già il 29 novembre del 1918, a pochi giorni dalla vittoria italiana in guerra, era convinto della necessità di percorrere strade nuove per lo sviluppo economico ed industriale nazionale senza però ricorrere alle nazionalizzazioni forzate né alla compressione dell’iniziativa privata, ma dando allo Stato una funzione di «coordinazione» ed il compito di «fare agire le iniziative individuali». Alla base delle idee e delle azioni dei nazional-riformisti nell’immediato dopoguerra stava la convinzione di poter trovare nel rafforzamento del ruolo d’intervento dello Stato una risposta valida alla crisi, senza che questo significasse auspicare o favorire soluzioni di matrice socialistica o autoritaria; solo che, mentre Nitti aveva nella prospettiva liberale il punto di riferimento per le sue istanze riformatrici, i nittiani iniziarono a pensare a forme più avanzate ed in linea con i bisogni dello sviluppo industriale di coordinamento economico da parte dello Stato.
Negli stessi anni in Germania Walter Rathenau (assassinato il 24 giugno 1922 da due ufficiali dei Freikorps) teorizzava qualcosa di simile a quanto facevano in Italia i nittiani. Direttore al Ministero della Guerra del Kriegsrohstoffsabteilung (Dipartimento per l’approvvigionamento delle materie prime per uso bellico) dal 1914 al 1918, Rathenau si era opposto dopo il conflitto alla statalizzazione delle industrie ed alla violenza rivoluzionaria delle sinistre, suggerendo di introdurre, come “correttivo”, la partecipazione degli operai alla gestione delle aziende. Da ministro della Ricostruzione nel 1921 era assurto a teorico, ispiratore ed attuatore della “razionalizzazione industriale” tedesca. Renzo De Felice in “Intervista sul fascismo” (Laterza, Bari, 1975) definì Rathenau come un precursore del regime italiano e non è un caso la somiglianza delle sue teorie con quelle dei nazional-riformisti italiani ed il ruolo di primo piano che essi, su tutti Beneduce, avranno nella programmazione della politica economica fascista.
A guardare con una certa approssimazione gli istituti economici del fascismo, potrebbe sembrare che il nittismo abbia, durante la crisi degli anni ’30, “colonizzato” la politica economica del regime. La sensazione è naturalmente avvalorata dalla presenza ai posti di comando di diversi protagonisti di quel progetto, a cominciare da Beneduce (benché Giuffrida sia destinato a rimanere in una posizione più defilata), e dalla creazione di nuovi enti di gestione della medesima derivazione, primo su tutti l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) che si basava proprio sui principi della utilità sociale e del finanziamento extra-fiscale dei comparti statali introdotti in Italia dal “riformismo nazionale” al momento della nascita dell’INA.
Nitti, che aveva preso la strada dell’esilio già nel 1924 scegliendo di non collaborare con il fascismo, si separò così dai nittiani determinando una rottura insanabile tra l’eponimo e la sua categoria politica di riferimento. Per Nitti infatti era pericoloso unificare le istanze tecnocratiche del “riformismo nazionale” con i programmi dirigisti del fascismo senza la mediazione del mercato mentre per i (ormai ex) “nittiani” l’utilità sociale dell’economia poteva essere tale solo se diretta e controllata dallo Stato e dunque impiantata nella gerarchia di un regime autoritario.
Da questo punto di vista si notano le somiglianze tra i nazional-riformisti italiani in pieno fascismo ed i programmi planisti dei neosocialisti francesi (che provenivano in maggioranza dalla vecchia corrente riformista della SFIO) e dei liberaldemocratici convertiti alle varianti transalpine del fascismo.
Al “riformismo nazionale” si interessarono anche alcuni giovani dei Gruppi Universitari Fascisti mentre non trovò mai appoggi né sostegni concreti nell’area vasta e, sostanzialmente, non omogenea della “sinistra fascista”. Dal 1943 in avanti, le teorie dei nazional-riformisti vennero assorbite dal Partito Democratico del Lavoro (erede diretto del Partito Democratico Sociale Italiano e dell’Unione Democratica) che, su basi di conservatorismo sociale, portò avanti le istanze dei nazional-riformisti fino al suo scioglimento nel 1948.
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