di Emanuel Pietrobon
Antica Grecia, 432 Avanti Cristo. La città-stato di Atene impone una serie di sanzioni economiche contro la rivale Megara, attraverso un omonimo decreto, come ritorsione per alcuni crimini ai danni di cittadini ateniesi e presumibilmente coinvolgenti dei megaresi. Il decreto vieta ai megaresi di condurre operazioni commerciali in ogni porto e mercato controllato dalla Lega delio-attica e da Atene, gettando le basi per lo strangolamento economico di Megara, una polis basata sul e dipendente dal commercio. Secondo il celeberrimo storico Tucidide, l’attacco all’economia megarese avrebbe giocato un ruolo-chiave nell’esplosione della seconda guerra del Peloponneso.
La conoscenza di questo fatto storico è fondamentale per una ragione: ci ricorda che le grandi potenze sono consapevoli del potenziale omicida dell’economia da più di due millenni. L’economia, invero, è un’arma che è stata, ed è, tradizionalmente utilizzata per perseguire dei disegni egemonici e, non di rado, viene preferita alla guerra aperta. Oggi, rispetto al passato, gli strumenti con i quali portare l’economia rivale al collasso sono molto più numerosi, efficienti e letali. Da quando l’economia è stata internazionalizzata, virtualizzata e finanziarizzata, nuove armi dotate di potenziale distruttivo sono state sviluppate – come gli attacchi speculativi contro le valute nazionali, la manipolazione del rischio finanziario, il congelamento dei beni di singoli, imprese e governi, la colonizzazione delle infrastrutture strategiche – sullo sfondo del potere di pressione esercitato dalle corporazioni multinazionali, dalle organizzazioni internazionali e dalle banche multilaterali sulla gestione dei flussi d’investimento, sull’accesso al credito e sui mercati internazionali. Le economie degli stati-nazione sono più vulnerabili che mai, alla luce di soprascritte ragioni, e urge comprendere la necessità impellente di sviluppare degli anticorpi in grado di proteggerle da queste nuove tattiche di guerra coperta.
Le economie vanno difese a mezzo della costruzione di cinta murarie solide e anti-bombarda, vanno orientate alla prevenzione, vanno rese resistenti. Come costruire un’economia resistente nell’epoca della globalizzazione? Lo scopriremo insieme, qui, sulle colonne di Istituto Stato e Partecipazione, attraverso una serie di approfondimenti sul tema della guerra economica che, speriamo, possano catturare l’attenzione dei nostri decisori politici.
Perché l’Italia è vulnerabile, ha bisogno di una strategia multilivello e lungimirante che tuteli i campioni nazionali, preservi le infrastrutture strategiche e critiche e crei le condizioni per l’autosufficienza in situazioni emergenziali – come sono le carestie, le guerre economiche o le pandemie.
Resistenza non è sinonimo di autarchia ma di bilanciamento strategico tra apertura e chiusura, tra nazionalizzazione e stranierizzazione, tra produzione in loco ed esternalizzazione. L’Italia, in questo momento, non presenta un simile equilibrio e non è vaccinata contro la guerra economica. Urgono cure risolutive, non rimedi palliativi, tra le quali la formazione di quadri dirigenziali con la cognizione della geoeconomia e della guerra economica, l’entrata permanente dei servizi segreti nel controllo di banche e finanza, e la ri-nazionalizzazione di interi settori e il rimpatrio di intere produzioni. Capiremo insieme come sviluppare questa strategia, un approfondimento dopo l’altro. Il primo della serie, cioè questo, introdurrà il lettore al pericolo posto dall’eccessiva influenza nell’economia delle corporazioni multinazionali straniere.
Quando il sistema economico mondiale iniziò a sperimentare la globalizzazione, all’indomani dell’avvio dell’epoca coloniale, le potenze più lungimiranti – come l’impero britannico – appaltarono i propri piani espansionisti ai grandi privati, ottenendo dei risultati eccezionali. Il caso più popolare è indubbiamente quello della Compagnia delle Indie Orientali, la quale, operando in Asia meridionale ufficialmente per scopi commerciali, giunse ad ottenere il controllo di vaste aree del decadente impero Moghul e della penisola indocinese, gettando le basi per lo scoppio della prima guerra dell’oppio contro la Cina. Fu grazie al supporto della Compagnia delle Indie Orientali che l’impero britannico poté conquistare l’egemonia globale. Oggi, proprio come in passato, le corporazioni multinazionali agiscono molto spesso da longa manus dei loro Paesi di nazionalità e il loro potere diplomatico ed economico è impressionante.
Le multinazionali sono i nuovi protagonisti delle guerre economiche e la loro espansione globale, a volte, altro non è che un metodo scaltro per infiltrare le economie di nazioni rivali. Più una multinazione possiede ramificazioni nel mondo, più elevate sono le possibilità di poter sfruttare la disponibilità di influenza, potere e ricchezza per persuadere altre compagnie, o persino governi, a sottostare alla propria agenda. Se la multinazionale ha una presenza diretta nel Paese da colpire, può minacciare di delocalizzare altrove la produzione e/o esercitare pressioni su altre compagnie affinché facciano lo stesso – dando vita, così, ad un effetto domino la cui econo-micidialità dipenderà dal ruolo giocato dagli investimenti stranieri per quel Paese.
Il potere economico può essere anche sfruttato per corrompere ufficiali governativi, stampa, sindacati e persino per comprare degli “eserciti privati” con i quali diffondere instabilità e violenza. Fantapolitica? Per nulla. Non mancano gli esempi storici di multinazionali in guerra, guerra vera, contro gli stati: dal Guatemala di Jacobo Arbenz Guzman al Cile di Salvador Allende.
Le corporazioni multinazionali rappresentano un rischio concreto per la sicurezza nazionale, a prescindere dalla loro ramificazione, ma il pericolo è commisurato alla loro estensione – che va limitata e, soprattutto, va loro impedito di avvicinarsi ai settori strategici. L’economia di resistenza previene questi scenari perché ammette al controllo del sistema-paese soltanto lo Stato e i privati – privati nazionali. Fine della lezione numero uno.
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