di Clemente Ultimo
“Potrebbe essere un bagno di sangue”. Cosa? La tanto decantata svolta verde, anzi green come usa dire in Italia in ossequio al risibile principio secondo cui qualsivoglia iniziativa o progetto se denominato con termini anglofoni acquista immediatamente – per chissà quale magica causa – un’autorevolezza ed una concretezza che l’uso della lingua di Dante sarebbe ormai incapace di conferire. Peccato che sia vero solitamente il contrario: più confuse e fumose le idee, più frequente il ricorso all’inglese – anche quello maccheronico – nella convinzione di dare e darsi un tono utilizzando la lingua franca internazionale. È questo il caso anche del green new deal – appunto!- o della svolta green o della transizione ecologica che dir si voglia. Ovvero della necessità di riconvertire in modelli più sostenibili metodi di produzione e, più in generale, l’intera architettura socio-economica – stili di vita compresi – delle società contemporanee, europee ed occidentali in primis, mondiali in ultima istanza.
Un processo che, però, potrebbe rivelarsi molto più complesso, e costoso, di quanto raccontato finora, tanto da concretizzarsi appunto nel citato “bagno di sangue”. Possibilità evocata non da qualche “fascio-sovranista” amante delle ciminiere che eruttano polveri di carbone in spregio alle ansie ambientaliste di Greta (uno dei pochi effetti positivi del Covid è la scomparsa dai radar dell’adolescente svedese: avrà trovato impiego in Ikea?), bensì da tal Roberto Cingolani, fisico dal solido curriculum e soprattutto, per quel che interessa in questa sede, dal 13 febbraio 2021 ministro della Transizione Ecologica. Roboante definizione del dicastero che ha sostituito quello dell’Ambiente al fine di placare le ansie dei grillini, orfani del Conte 2 e chiamati ad ingoiare l’amaro boccone del governo Draghi.
Il problema del cambiamento climatico è una drammatica realtà, così come i suoi effetti. Proprio per questo, però, è indispensabile un approccio non ideologico e consapevole della complessità del problema, con implicazioni in praticamente tutti i settori. Insomma, cambiare nome ad un ministero non è certamente la mossa più utile da cui partire.
L’ambiente? Non è roba per “gretini” – Ebbene perché il ministro Cingolani arriva ad evocare scenari così drammatici per un processo che in molti, fideisticamente, evocano come unica possibile via di salvezza per un’umanità alle prese con gli effetti del cambiamento climatico? Semplicemente perché la riconversione dei sistemi produttivi – e dello stile di vita – è un processo decisamente più profondo e complesso di quanto molti pensano e di come è stato raccontato. In particolare in Italia, strano Paese che sembra ormai incapace di confrontarsi con la complessità. E del resto non è un caso se è nel Belpaese che è nato ed ha prosperato un movimento che pensava di poter risolvere ogni questione con un voto secco – sì o no – su una piattaforma digitale, inseguendo il mito fallace dell’uno vale uno nella convinzione che la competenza fosse superflua al cospetto dell’onestà.
Ma torniamo alla transizione ecologica. Processo che è qualcosa di ben più articolato che comprare una bella borraccia in alluminio al posto di una in plastica. O puntare magari a guidare un’auto elettrica, come suggerisce insistentemente la pubblicità (e già questo qualche dubbio dovrebbe suscitarlo!). Avviarsi lungo la strada che deve portare ad una transizione “ecologica” (ma forse più corretto sarebbe definirla “produttiva” o “socio-produttiva”) significa, infatti, affrontare difficili partite geopolitiche; assicurarsi il controllo delle fonti energetiche; riprogrammare i sistemi produttivi rinnovando processi ed impianti; modificare i processi di formazione e sostenere costi più alti per imprese e famiglie. Il tutto evitando che l’impatto sociale del cambiamento inneschi una crisi devastante nel Paese.
Il caro bollette – Il primo e più evidente impatto della transizione verde sarà – ahimè – particolarmente doloroso, nonché generalizzato: un consistente aumento della bolletta energetica. In Italia ci si dovrebbe attestare per quest’anno ad un +10% per l’energia elettrica ed un +13,5% per il gas (anche se in questo caso stime più pessimistiche ipotizzano un rincaro fino al 15%). Effetto senza dubbio di un generale rincaro dei prodotti energetici – il petrolio, ad esempio, è passato dai 15 dollari al barile dell’aprile 2020 ai circa 75 di oggi – innescato dalla ripresa di produzione e consumi che ha fatto seguito alle chiusure più rigide prodotte dalla pandemia. Ma in Europa non è questa l’unica causa dei rincari. A gravare sui costi di imprese e famiglie c’è anche il meccanismo messo a punto dall’Unione Europea per ridurre le emissioni di anidride carbonica in atmosfera, entrato in vigore nel 2005. In buona sostanza l’Ets – questo il suo nome – prevede che per poter rilasciare Co2 sia necessario acquistare un permesso, meglio una quota pari a una tonnellata di Co2.
La decisione della Ue di spingere sull’acceleratore per ridurre le emissioni ha portato a fissare due ambiziosi traguardi: entro il 2030 riduzione del 55% delle emissioni rispetto al 1990 e azzeramento delle stesse entro il 2050. Inevitabile corollario di questa scelta è la necessità di tenere alti, anzi di aumentare, i costi del carbon credit, nella convinzione che questo spingerà le aziende ad investire in soluzioni dal minore impatto ambientale. Da un costo oscillante tra i 20 ed i 25 euro per tonnellata si è arrivati a 60 euro, e “arriveremo a 100 euro per tonnellata”, si dice sicuro l’Ad di Eni Claudio Descalzi. Con effetti devastanti per le imprese, costrette a scaricare sul prezzo finale, dunque sui consumatori, i nuovi oneri energetici. Con il rischio concreto di finire fuori mercato, a tutto vantaggio delle imprese extra Ue, cinesi in primis. Come se non bastasse il piano varato in pompa magna dalla Ue nei giorni scorsi – che non poche divisioni ha provocato in seno all’Unione – prevede, tra l’altro, di estendere il sistema delle penalità anche al settore dei trasporti e delle abitazioni. Ovvero ulteriori costi che, a dispetto delle misure “paracadute”, rischiano di abbattersi sulle fasce meno abbienti della popolazione.
Tutto elettrico – Auto elettriche, impianti industriali e trasporti alimentati elettricamente: la soluzione all’immissione in atmosfera di Co2 è il ricorso all’energia elettrica. Ma come viene prodotta tutta l’energia elettrica destinata ad alimentare la transizione ecologica? È questa la domanda – in realtà banale – che in pochi si pongono. Eppure tutto inevitabilmente parte da qui. Sì, perché com’è ovvio anche per i più sprovveduti non esistono in natura giacimenti di energia elettrica, dunque questa dovrà in qualche modo essere prodotta. E non sempre le fonti sono ad impatto zero, tutt’altro!
Se, ad esempio, in Italia solo il 13% dell’elettrico deriva dal carbone, in Germania siamo al 50%. Il paradosso, dunque, è che aziende e cittadini italiani possano finire per pagare la decarbonizzazione dell’industria tedesca che, a sua volta, potrebbe essere messa fuori gioco da parametri ambientali eccessivamente rigidi a tutto vantaggio del sistema industriale statunitense (è solo un caso l’insistenza Usa sul tema?). Il dato paradossale è che al rigore europeo non fa da contraltare la medesima sensibilità dei maggiori Paesi produttori di emissioni inquinanti, ed in particolare della Cina. L’Unione Europea, infatti, pesa solo per l’8% a livello globale, dunque l’impatto delle sue scelte massimaliste è sostanzialmente limitato, per non dire ai limiti dell’irrilevanza.
Dopo la flessione registrata a livello globale nel primo semestre del 2020, causa pandemia, l’allentamento delle restrizioni ha fatto registrare una progressiva ripresa delle emissioni, tanto che a dicembre 2020 si è registrata una crescita del 2% rispetto allo stesso periodo del 2019. Nulla di imprevisto, trattasi del ben noto “effetto rebound”. Il dato interessante registrato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia è però quello relativo ai produttori di emissioni: mentre Stati Uniti, Unione Europea e Gran Bretagna fanno registrare un calo intorno al 10% e Paesi come Russia, Giappone, India e Brasile una riduzione compresa tra il 5 e l’8%, la Cina cresce dello 0,8%. Del resto, come ha spiegato Edo Ronchi in un intervento sull’Huffington Post “alla base delle enormi emissioni di gas serra della Cina e del loro aumento c’è una precisa scelta del governo cinese: quella di puntare in modo massiccio sull’uso del carbone. L’uso del carbone in Cina è la causa del 79% delle sue emissioni di Co2. Nel 2019 la Cina ha consumato 2.864 milioni di tonnellate di carbone, il 53% del carbone consumato nel mondo, con un aumento dell’11,5% di quello che consumava nel 2010”.
Un Paese distratto – In questo scenario l’Italia – salvo qualche rara voce – si muove con la consueta approssimazione. In pochi, specialmente all’interno della classe politica che è chiamata a dare corpo all’agenda ambientale europea, sembrano rendersi conto delle conseguenze potenzialmente devastanti che un’applicazione acritica e superficiale di determinate misure “verdi” rischia di avere per il sistema produttivo, dunque sociale, del Paese. Uno degli esempi più evidenti della superficialità della politica – e della “distrazione” del mondo dell’informazione – è rappresentato dalla messa al bando della plastica monouso.
La direttiva europea Sup (single use plastic) entrata in vigore lo scorso 3 luglio limita fortemente l’utilizzo di plastica monouso, tuttavia la norma europea non distingue tra plastica pura derivata dal petrolio, quella biodegradabile e prodotti composti al 90 o 95% da carta rivestita da plastica (in sostanza contenitori per uso alimentare). Si dà il caso che tanto nel settore della plastica biodegradabile che in quello della carta plastificata l’industria italiana sia leader a livello continentale, producendo il 66% di tutta la plastica riciclabile e compostabile del Vecchio Continente: l’applicazione sic et simpliciter della direttiva Sup rischia di mettere in crisi un comparto che, con il suo indotto, dà oggi lavoro a circa 150mila persone. Un rischio di cui la politica italiana, protesa verso la salvifica meta del green deal, si è accorta solo ora, tentando di porre rimedio alle vere e proprie incongruenze della norma europea. Norma che, tra le altre sue criticità, rischia di favorire l’importazione di materia prima e prodotti dall’Asia – continente dove è facilissimo aggirare le prescrizioni sulle percentuali di materiale riciclato da utilizzare nelle nuove produzioni – mettendo così di fatto fuori mercato le imprese europee e, segnatamente, quelle italiane.
Si vuole poi consideratel’obiettivo comunitario di arrivare alla rottamazione forzata del parco auto non elettrico entro il 2035? Un “traguardo” che rischia di infliggere un colpo durissimo ad uno dei settori industriali d’eccellenza del Belpaese, quello automobilistico. Ma le implicazioni negative di un approccio ideologico e non pragmatico al necessario – lo sottolineamo, necessario – mutamento dei sistemi di produzione verso modelli di minore impatto sono pressoché infinite. Un altro esempio? Quello citato dallo stesso ministro Cingolani in una recente intervista a La Stampa, intervista in cui viene affrontato anche il tema dell’acciaio “verde”. “Quello della transizione delle acciaierie – spiega il ministro – è un problema molto urgente. Pensiamo di passare dalle fornaci a carbone a una fornace alimentata a gas, quindi con dei forni elettrici e già questo abbatte la CO2 del 30%. Lavoriamo per convertire anche le grandi acciaierie come l’Ilva. Certo per fare questo l’Europa ci dovrà dare una mano perché se noi produciamo un acciaio buonissimo, verde, che costa di più, e poi qualche altro Paese lontano ci vende acciaio non verde a basso costo, bisogna compensare. È un problema di geopolitica e di accordi internazionali. Il problema non è solo se noi raggiungiamo l’obiettivo della transizione energetica e ambientale. Il problema è se ci riusciamo tutti insieme”.
Scenari globali – Geopolitica: ecco la parola magica! Altro aspetto drammaticamente sottovalutato da chi pensa di risolvere i problemi dell’ambiente marinando la scuola al venerdì o organizzando un bel flash mob in piazza – rigorosamente in centro, magari in ora aperitivo – è quello delle implicazioni geopolitiche e strategiche che la transizione ecologica porta con sé. Sì, perché nessun Paese che guardi al proprio futuro in un’ottica più lunga di quella delle prossime elezioni (dunque non certo l’Italia) ignora che per modificare il proprio sistema produttivo, quindi economico, senza vederlo crollare o esporlo ad eccessivi condizionamenti da parte di potenze straniere è necessario controllare determinate filiere, produttive come di approvvigionamento.
Torniamo all’elettrico per provare ad illustrare la dimensione reale di questo aspetto. Per la produzione di batterie e conduttori indispensabili per la massiccia elettrificazione che si prospetta nei prossimi anni, sono indispensabili minerali come il litio, il cobalto, le terre rare (rare più che per la loro effettiva disponibilità, per la complessità di estrazione e lavorazione). Ebbene per il controllo delle fonti di approvvigionamento è in corso una competizione su scala planetaria tra le potenze, Stati Uniti e Cina su tutti. Controllare i giacimenti di litio, ad esempio, significa poter indirizzare i flussi di approvvigionamento eventualmente riducendo, se non tagliando del tutto, le forniture a Paesi rivali/ostili.
Oggi, ad esempio, gli Stati Uniti importano circa l’80% di terre rare dalla Cina, una dipendenza che non lascia dormire sonni tranquilli agli strateghi di Washington. Basti pensare che un solo F 35 – l’aereo d’attacco made in Usa più avanzato tecnologicamente – richiede circa 437 chili di minerali “strategici” per la realizzazione di suoi componenti: una stretta cinese alle esportazioni verso gli Stati Uniti avrebbe effetti diretti anche in campo militare. Anche per questo si è deciso di puntare alla riattivazione di alcune miniere nel territorio americano (come quella di Mountain Pass). Identiche preoccupazioni hanno i Paesi europei, anche se la capacità di reazione appare decisamente meno marcata.
I costi ambientali della transizione ecologica – Può sembrare un paradosso, ma alcuni aspetti della svolta verde, così come si sta realizzando, presentano un costo ambientale estremamente elevato, su cui probabilmente non si è ancora sviluppata una riflessione attenta, finalizzata ad individuare le giuste soluzioni. La scelta di ridurre progressivamente fino ad eliminare di fatto le stoviglie in plastica monouso è criticato da chi evidenzia come l’impiego di piatti e posate riutilizzabili finisca per produrre un impatto ambientale maggiore: consumo di acqua dolce superiore del 3,7%, produzione di microplastiche contenute nei detersivi, emissioni di Co2 maggiori del 2,7% rispetto al monouso in carta[1].
Decisamente più critica, non ultima per i costi sociali che comporta, è la situazione relativa allo sfruttamento dei giacimenti di litio e cobalto. In particolare nei Paesi africani ai costi ambientali si aggiungono quelli di uno sfruttamento selvaggio della manodopera, con corollario di instabilità politica e guerriglie endemiche in nazioni come il Congo, dilaniato da conflitti secessionisti alimentati anche dai tentativi esterni di controllare lo sfruttamento di queste risorse strategiche. Ma anche senza arrivare a questi estremi ci sono costi ambientali di cui tenere conto: l’aumento dell’estrazione di litio – indispensabile per le batterie elettriche – rischia paradossalmente di far esplodere le emissioni di Co2 nei prossimi anni.
Una ricerca condotta da Roskill evidenzia il pericolo di un aumento di tre volte delle emissioni di Co2 entro il 2025 e di una crescita a fattore sei entro il 2030 per soddisfare la crescente richiesta di litio, considerate le fasi di estrazione, produzione, trasporto e fabbricazione legate a questo minerale. Ad oggi l’estrazione minerario del litio comporta in media la produzione di 9 tonnellate di Co2 per ogni tonnellata di minerale estratto[2]; meno pesante dal punto di vista ambientale il processo di ottenimento di litio raffinato (LCE) tramite estrazione da acque salmastre ad alta concentrazione. In quest’ultimo caso, però, il processo richiede un elevato consumo di acqua dolce e produce rifiuti chimici fortemente tossici. L’impatto può essere devastante, come in Bolivia dove nella regione del Salar de Uyuni ben il 65% dell’acqua disponibile viene utilizzata nel processo di estrazione del litio, con quali conseguenze per allevatori e coltivatori della zona è facile immaginare.
In conclusione – Qual è l’obiettivo di questo articolo? Non certamente quello di offrire una visione completa ed esaustiva su un argomento – la transazione ecologica – destinato ad essere centrale nella vita, prima ancora che nel dibattito pubblico, delle società europee e latu sensu occidentali nei prossimi decenni. Piuttosto quello di provare a richiamare l’attenzione sulla complessità del tema e dei processi ad esso connessi, nella convinzione che solo la percezione di questa complessità e delle sue implicazioni possa favorire in primis un confronto e poi il maturare di scelte e soluzioni non dettate da spinte emotive, bensì da valutazioni razionali. Perché se è evidente che il modello di sviluppo socio-economico attuale non sia più sostenibile, è altrettanto chiaro – o almeno dovrebbe esserlo – che una visione ideologica, “giacobina” per certi versi, non è la più adeguata ad individuare soluzioni praticabili.
Anche perché non tutti gli attori in campo sono disposti a giocare seguendo le stesse regole: la “disinvoltura” della Cina, ma non solo, nell’approccio alle tematiche ambientali è lì a dimostrarlo. Distruggere il proprio apparato industriale – con le inevitabili ricadute occupazioni e sociali – per inseguire velleitari traguardi green senza che gli altri competitori si muovano nella stessa direzione è semplicemente autolesionismo, senza contare che poco o nulla si gioverebbe alla causa ambientale.
Così come è da evitare il rischio – ben concreto in Europa, purtroppo – che l’ambientalismo e le politiche socio-economiche ad esso ispirate diventino un “gioco per ricchi”, gli unici a potersi permettere i costi della bolletta energetica più cara, le spese di adeguamento verde di trasporti ed abitazioni, servizi più cari perché da adeguare a nuovi standard. Perché il fin dei conti la domanda cui rispondere è sempre la stessa: se c’è ancora qualcuno che va in giro con una vecchia Panda è perché ha una cattiva coscienza ambientale o perché è un morto di fame e non può permettersi di cambiare auto? Noi propendiamo per la seconda ipotesi.
L’ambientalismo, la transizione ecologica, non possono e non devono essere causa di un nuovo scontro sociale, un modo per ampliare il divario già profondo tra l’alta borghesia ed i ceti medio-bassi. Non possono e non devono essere l’ennesima occasione di profitto offerto alle multinazionali che danno una spennellata di verde alla propria immagine, pur continuando a praticare politiche di sfruttamento del lavoro e dei territori. Insomma, la transizione ecologica deve essere anche occasione per recuperare un rapporto diverso con l’ambiente, non legato ad una visione di appropriazione mercantilistica dello stesso. Ecco, forse il problema – e la sfida – è proprio questo: superare una visione neoliberista del mondo consegnando alla storia l’orgia consumista. Non sarà facile.
[1] Dati contenuti nell’analisi Life cycle assessment a cura di Ramboll citato in La Verità del 19 luglio 2021
[2] Dati estratti da Sustainability Monitor di Roskill e successivo White Paper citati da Agenzia Ansa
Lascia un commento