Uno degli eventi più rimarchevoli dell’Europa post-bellica è senza dubbio il gollismo in Francia. Esso ha incarnato un modello di società e di Stato che di solito viene attribuito ai cosiddetti sistemi autoritari del Novecento: presidenzialismo, collaborazione fra le classi e partecipazione. Occorre chiedersi per quali motivi la storiografia ufficiale lo abbia pesantemente sottostimato, tanto che oggi, anche in qualificati ambienti accademici, ben pochi sono coloro che di esso possiedono una visione completa e oggettiva. Le risposte a tale domanda possono essere di un duplice ordine: o perché la riforma integrale di de Gaulle è rimasta incompiuta (l’ultimo suo capitolo, la partecipazione, non vide la luce, in quanto respinto dal referendum popolare del 27 aprile 1969), ovvero, e forse questa è una spiegazione più esatta, perché quella certa idea della Francia, con cui il Generale inizia il suo libro di ricordi Le memorie della speranza, non può essere collocata nel comodo universo dell’ideologia fascista, essendo figlia di una tradizione del tutto resistenziale.
Nessuno, infatti, potrebbe dare seriamente del fascista all’autore del celebre appello radiofonico del 18 giugno 1940 da Londra, “La Francia ha perduto una battaglia, non la guerra”, al fondatore della famosa brigata militare France Libre, al “mitico” liberatore di Parigi, che il 25 agosto 1944 apre il corteo delle truppe vittoriose sugli Champs Elysées, in mezzo al sibilo delle pallottole sparate dai cecchini di Vichy appostati sui tetti. Non che qualcuno non ci abbia provato, intendiamoci. Cartelli con su scritto Le fascisme ne passera pas vennero issati dai casseurs parigini nel famoso maggio 1968, così come dai pochi fanatici del Partito Comunista, uno dei più estremisti del mondo occidentale, anche se ormai ridotto a percentuali da prefisso telefonico. Nessun commentatore serio, però, ha mai potuto demolire la figura del più grande uomo politico europeo del dopoguerra, oltre che del più illustre francese dopo Napoleone, con argomenti tanto palesemente assurdi. Molto meglio farlo dimenticare, stendendo un velo omertoso su tutto il suo vastissimo progetto, sia nelle parti realizzate, sia in quelle che non videro la luce.
Le ragioni per cui il sottoscritto si ritiene in grado di trattare un argomento così complesso, sono le seguenti. Nella seconda metà degli anni ’60, in qualità di studente prima liceale, poi universitario, ebbi la fortunata occasione di recarmi spesso a Parigi, ove mio zio Luigi Mochi Sismondi figurava fra i funzionari italiani di più alto rango presso l’Ocse, e mia madre possedeva amicizie qualificate. Fra queste era il Generale Pierre Roux, collega e amico di de Gaulle, in quanto entrambi cadetti dell’Accademia Militare di Saint Cyr. Il marito di sua figlia, giovane e brillante giornalista accreditato presso l’Assemblea Nazionale, o Camera dei Deputati, mi fece ottenere un tesserino provvisorio di addetto stampa, motivandolo con le mie collaborazioni con diversi periodici italiani. Grazie a questo lasciapassare divenni spettatore di storiche sedute parlamentari, oltre ad entrare in contatto con qualificati esponenti dell’UDR, il partito gollista, ove all’epoca fervevano discussioni in vista dell’ultima, grande riforma promessa dal Generale: la partecipazione. Fu proprio in una festa di beneficenza organizzata dal partito presso il Ministero della Marina, in Place Vendome, che ebbi l’incredibile onore di essere presentato alla madrina dell’evento, Madame Yvonne Vendroux, sposa fedele di Charles de Gaulle. Scambiai con lei poche parole , ma mi è sempre rimasto impresso il suo incoraggiamento a testimoniare all’estero la verità su ciò che il marito stava facendo non solamente per il bene della Francia, ma dell’Europa intera. Nel suo timbro di voce mi sembrò di cogliere un accento di mestizia, forse di delusione, per come la politica del marito veniva fraintesa o contrastata dalle principali Cancellerie straniere.
Anche per questo, in omaggio a lei e a quella straordinaria serata, mi sono sempre impegnato, con i miei mezzi purtroppo modesti, a scrivere e a dire la verità sull’esperimento gollista. Ho fatto ciò in convegni e congressi, fra cui molti del CESI, in seminari universitari, in articoli sulle diverse riviste. Pure in due libri ho affrontato sinteticamente il tema: Ricordi e riflessioni di un sessantottino di destra (ed. Campanotto, Pasian di Prato 2010) dedicato alla mia esperienza presso la Facoltà di Sociologia di Trento, e Una nuova Costituzione per un nuovo modello di sviluppo (ed. Solfanelli, Chieti 2018). Ma in cosa consisteva l’originalità di quella certa idea della Francia così cara al Generale?
Essa si può riassumere in tre capitoli fondamentali: istituzioni pubbliche, politica estera, rivoluzione partecipativa. La sua ferma convinzione, dopo avere sperimentato l’ingovernabilità del Paese nei primi dodici anni del dopoguerra (Quarta Repubblica), era che il sistema parlamentare, ostaggio dei partiti, non potesse funzionare, e fosse la causa della gravissima crisi della società francese di quel periodo, aggravata dal progressivo disfacimento dell’impero coloniale e relativi conflitti. Sai pensi alla sconfitta di Dien Bien Phu e alla perdita del Vietnam, oltre che alla defatigante e interminabile guerra d’Algeria, causa di continui disordini anche per la rilevantissima quantità di vittime fra i militari della coscrizione obbligatoria. Le forze retrive, espresse dalle lobby finanziarie e di pressione che di fatto dirigevano i partiti, non esitavano a imporre il sacrificio della migliore gioventù pur di tutelare i loro interessi. De Gaulle, invece, che ha sempre guardato alla politica con profondo realismo, aveva da tempo compreso che gli imperi coloniali, iniziando da quello britannico, ormai appartenevamo al passato, e che tentare caparbiamente di difenderli avrebbe solamente affrettato il declino delle società nazionali. Anche per questo maturò in lui la convinzione che il Paese dovesse essere guidato da un Presidente eletto direttamente dal popolo, e pertanto investito della più ampia autorità, soprattutto di fronte alle emergenze. Ciò sarà suffragato dal famoso articolo 16 della nuova Costituzione, quella della Quinta Repubblica approvata con il referendum popolare nel 1962, che ricalca l’istituto del Dictator del diritto pubblico romano, ma ancor più stringente di quello, dato il periodo più lungo previsto per i pieni poteri del Capo dello Stato francese. In tal modo de Gaulle assicura la governabilità, pur nel pieno rispetto delle garanzie democratiche.
Quanto alla politica estera, le sue posizioni rivelano la precisa volontà di affermare la piena indipendenza della Francia, malgrado l’adesione di questa ai maggiori trattati internazionali. A lui si deve la Force de frappe, ossia il possesso dell’arma atomica, non a scopo offensivo, ma come deterrente nei confronti di chi avesse attentato alla sovranità nazionale. Alla mia obiezione, mossa a un esponente politico dell’UDR, che comunque la Francia avrebbe dovuto soccombere di fronte a superpotenze nucleari come l’Urss o gli Usa, egli mi rispose: «Verissimo, ma noi siamo in grado di dare una risposta devastante a ogni eventuale attacco. Converrebbe, per esempio a Mosca, di distruggere la Francia quando noi potremmo comunque provocare la morte di 150 milioni di sovietici, vale a dire di tutti gli abitanti della Russia europea?». Circa l’Europa, poi , le idee del Generale erano fermissime. Egli riteneva che un edificio comune dovesse avere lo scopo di difendere tutti i principali interessi condivisi, come la libertà, l’indipendenza, l’inviolabilità delle frontiere e simili. Nessuna interferenza, però, le istituzioni comunitarie avrebbero dovuto esercitare sulla politica interna dei singoli Stati. L’Europa di de Gaulle è pertanto confederale, non federale, e Dio sa quanto avremmo pregato, nelle presenti circostanze, di avere a che fare con un simile modello.
Quella “certa idea” non sarebbe stata completa, tuttavia, se non avesse incluso la partecipazione e la collaborazione fra le classi tra i suoi obiettivi. La prima volta che il Generale ne tratta pubblicamente è in un discorso a Lilla, in Lorena, il 21 maggio 1947: «Noi del nord siamo fieri di proporre l’associazione tra capitale e lavoro e l’azione, tra queste due forze, di un arbitro supremo: lo Stato. E’ giunta l’ora di legarci gli uni agli altri, l’ora della salvezza pubblica. Ne abbiamo assai di questa opposizione fra i diversi gruppi di lavoratori e produttori, che avvelena e paralizza l’attività economica nazionale». Ribadisce quindi tali concetti nella conferenza stampa all’Eliseo del 7 giugno 1968 a commento dei recenti disordini: «Bisogna spiegare gli eventi di maggio, andare al fondo delle cose, parlare della mutazione di questa società che ha perduto le fondamenta sociali, morali, religiose tradizionali, in cui i mezzi d’informazione esercitano un potere colossale. Una civiltà meccanica. Come trovare un equilibrio umano per la società meccanica moderna? Ecco una grande sfida di questo secolo. Né il comunismo, né l’odierno capitalismo ci possono riuscire. Bisogna quindi impegnarsi nella partecipazione. Personalmente non sono per nulla imbarazzato a definirmi rivoluzionario, come in molte alte circostanze della mia vita».
De Gaulle, muovendo da queste convinzioni, affida a un qualificatissimo team di esperti la preparazione delle proposte di legge da sottoporre al giudizio dei francesi. Di esso fanno parte illustri studiosi come René Capitant, Alain Peyrefitte, Louis Vallon, Frédéric Grendel. Il sociologo e giornalista Marcel Loichot raggruppa questi contributi in una interessantissima antologia, La mutation, pubblicata a Parigi dall’editore Tchou nel 1969, ma che non ha mai circolato nelle librerie. Personalmente me ne procurai una copia dietro un’offerta libera al partito gollista, che me la fece recapitare per posta. In Francia ne vennero stampati soltanto 500 esemplari, e in Italia, sono certo, il mio è l’unico esistente. Proprio di qui mi propongo di ripartire per sottoporre ad analisi, in successivi contributi, i diversi aspetti della partecipazione secondo de Gaulle, testimoniandone la loro sorprendente attualità.
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