Di Natalia Andreozzi
Da marzo 2020, diversi sono stati gli argomenti che hanno monopolizzato l’attenzione dell’opinione pubblica, soprattutto in tema di diritto del lavoro e previdenza sociale. Da qualche settimana abbiamo letto e ascoltato diverse opinioni in merito all’ultimo argomento clue strettamente correlato al coronavirus: il licenziamento in caso di rifiuto da parte del lavoratore subordinato di sottoporsi al vaccino. In un’intervista al Corriere della Sera, il prof. Pietro Ichino ha sostenuto che il licenziamento si rende necessario laddove il dipendente si rifiutasse di ricevere il vaccino, in ottemperanza all’obbligo di sicurezza che grava sul datore di lavoro. Se la risposta può sembrare semplice e lineare, non bisogna dimenticare che la normativa in materia di lavoro non è statica ma in continua evoluzione e può non prevedere misure specifiche per situazioni emergenziali simili a quella che stiamo vivendo.
L’art. 32 della Costituzione prevede che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Anche se al momento il Legislatore non ha previsto un obbligo di vaccinazione specifico, l’art. 2087 del c.c. dispone che “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Da una lettura congiunta di tale articolo e la più ampia normativa in tema di sicurezza sul lavoro trattata nel relativo Testo Unico (D. Lgs. n. 81/2008), il datore è obbligato ad adottare misure specifche utili a tutelare i lavoratori, attraverso i dispositivi di protezione individuale o speciali e anche attraverso “la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione”.
In base alle disposizioni del Testo Unico di sicurezza e salute sul lavoro, a fronte di determinati tipi di prestazioni che espongono i lavoratori a specifici rischi, il datore di lavoro ha l’obbligo di mettere a disposizioni i vaccini, anche in base al parere del medico del lavoro competente.
L’art. 2, lettera s, D.Lgs. 81/08 definisce il “rischio” come la “probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione”. Il rischio può essere specifico, se insito nell’organizzazione aziendale presso la quale il lavoratore opera, oppure generico, nel caso in cui sia presente nell’ambiente sociale esterno all’organizzazione aziendale ma che potrebbe aggravarsi all’interno di quest’ultima.
Fatta questa distinzione, sarebbe logico dedurre che il rischio di contagio da Covid-19 negli ambienti non sanitari sarebbe di natura generica e non specifica, con il conseguente venir meno dell’obbligo in capo ai datori di lavoro di mettere a disposizione l’eventuale vaccino.
Di contro, se la vaccinazione viene inquadrata come l’unico strumento utile di prevenzione al contagio, sul datore di lavoro graverebbe l’onere di rendere il luogo sicuro anche dai rischi generici esterni all’organizzazione aziendale, così come lo è il Covid-19. Questo stato di cose genera due circostanze diverse in capo al lavoratore e al datore di lavoro. Per il lavoratore si potrebbe aprire un iter di ricollocazione, sospensione dal lavoro e licenziamento nel caso in cui si rifiuti di sottoporsi al vaccino. Il lavoratore per poter svolgere la mansione alla quale è assegnato deve essere considerato idoneo. Il giudizio di idoneità alla mansione è certificato dal medico competente. Pertanto, quest’ultimo può emettere giudizi di inidoneità parziale o temporanea per i lavoratori che rifiutano il vaccino. In presenza di tale parere negativo, il datore di lavoro è obbligato a seguire le indicazioni del medico competente e dovrebbe ricollocare il lavoratore inididoneo a mansioni equivalenti o inferiori utili a prevenire la diffusione del contagio. Se il tentativo di ricollocazione non desse esito positivo, il datore sarebbe giustificato ad allontanare il dipendente dal posto di lavoro per tutelare la salute di tutti, anche attraverso l’utilizzo di istituti contrattuali come l’aspettativa, al fine del mantenimento in forza del lavoratore stesso, nell’ottica di un rapporto basato sulla correttezza e la buona fede.
L’ inidoneità, se permanente, potrebbe consistere in un impedimento oggettivo della prosecuzione del rapporto di lavoro, determinando il licenziamento del dipendente.
Anche se questo percorso può sembrare lineare, altri sono i dubbi che sorgono in relazione al diritto alla salute del lavoratore che rifiuta di sottoporsi alla vaccinazione: oltre alle convizioni di tipo ideologiche, vi potrebbero essere reali motivi di salute che impedirebbero la somministrazione del vaccino al dipendente.
Anche sulla posizione stessa del datore di lavoro vi sono diverse considerazioni che non possono essere tralasciate. Infatti, nel caso in cui il lavoratore non accetti di vaccinarsi, in mancanza di una norma di legge ad hoc che obblighi al vaccino, ricade sul datore di lavoro l’onere di dover dimostrare che la vaccinazione degli altri dipendenti si configura come misura indispensabile ai fini della tutela della sicurezza e della salute sua, degli altri colleghi e dell’eventuale utenza esterna, senza la quale non sarebbe possibile prescindere poiché altre misure alternative seppure adeguate non sarebbero sufficienti (si pensi ai dispositivi di sicurezza, le disinfettazioni, le misure di svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile etc). Non solo, sempre sul datore di lavoro graverebbero tutte le conseguenze che il vaccino potrebbe comportare al lavoratore come eventuali reazioni allergiche.
Il tema resta aperto e restano aperti i dubbi ad esso legati: la legge deve prevedere in maniera specifica l’obbligo di sottoporsi al vaccino secondo quanto stabilito dall’art. 32 della Costituzione? Oppure l’art. 2087 del c.c. è sufficiente a giustificare tutto l’assetto organizzativo di prevenzione al rischio da contagio del Covid-19 fino a giustificare un’eventuale inidoneità del lavoratore e un suo licenziamento per giusta causa nel caso in cui si rifiuti di vaccinrsi? Come deve comportarsi un datore di lavoro che ha l’obbligo di legge di rendere il luogo di lavoro sicuro ma non può e non deve, ad avviso di chi scrive, imporre o proporre il vaccino ai proprio dipendenti né subordinare l’assunzione dei lavoratori all’avvenuta vaccinazione? E se un datore di lavoro fosse orientato ad applicare l’imposizione del vaccino anche senza una legge che prevede tale obbligo, quali conseguenze penali e civili potrebbero su di lui ricadere nel caso in cui la vaccinazione comportasse degli effetti collaterali al dipendente sottoposto al trattamento?
Per rispondere a questi quesiti non basta un’interpretazione del diritto positivo. E’ necessaria una lettura delle norme che tengano conto dei cambiamenti sociali e climatici che stiamo vivendo e dal quale compito la politica il più delle volte rifugge. Nel caso di specie, il Legislatore dovrà colmare il vuoto senza nascondersi dietro l’argomento della “libertà di scelta” del vaccino si o vaccino no. Sarebbe sbagliato e incorretto da parte del Legislatore far ricadere sui datori di lavoro e sui lavoratori il compito di gestire la complessa questione della vaccinazione poiché esso stesso non non ha il coraggio o la volontà di renderlo obbligatorio.
Lascia un commento