Di Mario Bozzi Sentieri
Spente le luci del “concertone” del 1° maggio 2022, che cosa rimane ai giovani che hanno gremito Piazza San Giovanni? Qual è la “fotografia” della loro realtà esistenziale e sociale? Quali aspettative hanno ?
I giovani, in tempi “normali”, dovrebbero rappresentare una speranza per l’intero Paese, una “risorsa” su cui investire. Purtroppo gli indicatori statistici ci dicono il contrario.
Secondo l’ultimo Rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes), elaborato dall’Istat, un giovane su quattro di età compresa tra 15 e 29 anni non studia né lavora. Nel 2021 in Italia sotto la sigla che indica la categoria Neet (“Not in education, employment or training”) è risultato il 23,1% dei ragazzi sotto i trent’anni. Si tratta di un indicatore di malessere che appare in crescita rispetto ai livelli precedenti alla pandemia (22,1% nel 2019), segnando così un primato negativo dell’Italia rispetto agli altri paesi Ue. Tra i 27 Paesi della Ue l’Italia nella fascia d’età 15-29 anni è ai vertici della triste classifica Neet, avendo superato quota 3 milioni.
A questo “malessere” diffuso va aggiunto il problema dell’occupazione, che assume contorni particolarmente allarmanti se si considera la fascia d’età dei più giovani, che ha subito un contraccolpo di -3,5 punti percentuali nel secondo trimestre 2020 rispetto al secondo trimestre 2019. Un dato che pone l’Italia al penultimo posto tra i 27 Paesi europei e che supera abbondantemente la media europea di -2,3 punti percentuali.
A partire dal 2019, in Italia si è poi interrotto il costante, seppure lento, aumento della quota di laureati, mentre alto è il livello di abbandoni prematuri della scuola. Nel secondo trimestre 2020, da noi, il percorso formativo si è interrotto molto presto per il 13,5% dei giovani tra 18 e 24 anni (sono giovani che raggiungono al più la licenza media).
La questione non è evidentemente “solo” economica. Il permanere di tali clamorosi divari squilibra profondamente gli assetti sociali (determinando frustrazioni, rancore, senso di estraneità rispetto agli interessi e ai valori dell’intero sistema Paese, come documentano da alcuni anni le indagini del Censis). D’altro canto – in una fase di profonde trasformazioni – alle imprese vengono a mancare risorse umane indispensabili: professionalità sofisticate per le professioni legate all’innovazione tecnologica e alla digital economy (ingegneri, matematici, informatici, statistici, fisici, chimici, data analyst ed esperti di cyber security, neuroscienziati e tecnici del complesso mondo delle life sciences), ma anche tecnici intermedi per l’industria meccanica, meccatronica, chimica oltre che per l’intero comparto delle costruzioni.
Come uscirne? Ecco un primo punto, che ci piacerebbe vedere portato al centro del confronto politico-programmatico: ad ogni giovane che voglia costruire il proprio avvenire (e quindi quello nazionale) occorre garantire il diritto di vedere riconosciuti i propri meriti, cosa che non è, fino ad oggi, avvenuta, vuoi per un’ errata concezione dell’uguaglianza, vuoi per gli “inquinamenti” partitici e “baronali” che spesso hanno provocato una selezione alla rovescia.
Il riconoscimento dei meriti (da garantire attraverso percorsi scolastici “premianti”) è il primo passo per favorire il libero sviluppo della personalità e l’autentica “liberazione” dei giovani. E siamo al secondo punto. Tramontato il tempo dell’”individuo sociale”, caro a certa cultura macchinistico-industrialista, sono l’aggiornamento permanente e l’innovazione a segnare la nuova “filosofia del lavoro”. Ed è dunque rispetto a questa nuova filosofia che è necessario riparametrare una cultura ed i modelli organizzativi che intorno ad essa vanno emergendo, puntando sui giovani, oggi rinchiusi sotto la cappa dell’inattività (o nell’assoluta precarietà del lavoro irregolare e “nero”)
Questo introduce un terzo dato: la partecipazione. Essere partecipi, fare parte, sentirsi parte di un progetto, è la grande aspettativa giovanile, un’aspettativa che – sia chiaro – non ha niente di massificante, non può essere comprata a colpi di sussidi di disoccupazione , ma che si coniuga con il diritto alla meritocrazia, con il riconoscimento dei talenti individuali, con la pienezza di un avvenire autentico (tutto questo all’interno di chiari indirizzi programmatici e formativi).
Un discorso di qualità dunque e di valore, quello che va letto tra le pieghe del complesso e contraddittorio vissuto giovanile. Bisogna però parlarne. Bisogna affinare sensibilità e modalità d’intervento, chiamando ciascuno a fare il proprio dovere. Bisogna impegnare le risorse al fine di risolvere la nuova “questione giovanile”. Bisogna “mobilitare” l’intera Nazione.
“La gioventù di un grande Paese – diceva Abel Bonnard – in tempi felici riceve esempi, in tempi di crisi li dà”. Mai come oggi c’è bisogno di “esempi” (culturali, sociali, politici) in grado di saldare vecchie e giovani generazioni, superando finalmente una condizione, giovanile e non, senza avvenire. Ne ha bisogno l’Italia. Ne abbiamo bisogno un po’ tutti. Mai come oggi l’avvenire dei giovani coincide con l’avvenire dell’intero Paese.
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