Di Gennaro Malgieri
Non è necessario scomodare Ernest Renan per convincersi che la nazione è un «plebiscito» di tutti i giorni. Basta avere la consapevolezza che il principio stesso dell’appartenenza a una cultura e a un sistema di valori civili ci fa essere cittadini di una nazione. Sembra, e forse lo è, una banalità, ma dopo la crisi delle ideologie che negavano in radice la nazione come comunità storicamente fondata, sono insorte forme diverse e probabilmente più subdole che la mettono in discussione, delle quali bisogna necessariamente tenere conto: il mondialismo, il pensiero unico, l’indifferentismo culturale, il relativismo etico.
È difficile qualificare queste tendenze come ideologie strutturate; ma è, viceversa, facile riconoscerle come «veicoli» dell’ulteriore messa in discussione della nazione che apre la strada al rifiuto del riconoscimento delle specificità e, dunque, a un sorta di «totalitarismo morbido» avente la pretesa dell’ineluttabilità dell’omologazione culturale quale fine ultimo della «guerra» alle differenze condotta soprattutto dai gruppi di potere finanziario e mediatico. È per questo che la nazione si configura non come una ripresa degli stilemi del vecchio nazionalismo arroccato attorno ai principi dell’intangibilità dei «sacri confini» e moralmente giustificato da una improponibile «volontà di potenza» declinata in imperialismo, ma come un atteggiamento che trascende il particolarismo egoistico e afferma il diritto alla sovranità per tutti i popoli e tutti gli Stati, a prescindere dall’organizzazione giuridica di cui sono dotati. Per tale motivo, soprattutto, non si giustifica la pretesa di esportare (magari con le armi) la democrazia «all’occidentale» in aree geografiche dove popoli animati da altre culture non sono in grado di governarla e considerano chi intende promuoverla alla stregua di un colonialista. Ritenere, in altri termini, che chiunque e ovunque debba ragionare secondo i nostri schemi mentali, desiderare ciò che noi desideriamo, essere insomma come noi o quanto meno assomigliarci è democraticamente discutibile oltre che offensivo del principio stesso di nazionalità.
Così come un “crimine” è la dissoluzione delle nazioni che Roger Scruton, il più autorevole ed influente filosofo conservatore contemporaneo, ha denunciato nel magistrale saggio Il bisogno di nazione , contributo rilevantissimo alla riscoperta dell’idea di nazione come elemento fondante il governo del popolo costituzionalmente riconosciuto da coloro che vivono su uno stesso territorio e nutrono un attaccamento al sentimento dell’appartenenza, al di là dei fattori etnico-religiosi che contribuiscono a falsare la nozione stessa di nazionalità esaltando piuttosto il tribalismo e l’intolleranza. Scruton sostiene che le democrazie devono proprio alla fedeltà nazionale la loto esistenza ed allo Stato che in essa si riconosce lo strumento giuridico deputato a difendere le libertà personali e la sovranità collettiva. Perciò le istituzioni sovranazionali che abusano del potere di delega, minacciano seriamente l’indipendenza dei popoli e allo Stato nazionale, che pure ha bisogno di essere migliorato nelle sue strutture, non v’è alternativa a meno di non voler diventare genti prive di autonomia e spodestate delle prerogative storico-territoriali che ne hanno legittimato l’esistenza. A cominciare dal principio di cittadinanza, “dono principale delle giurisdizioni nazionali”, scaturita dalla relazione tra lo Stato e l’individuo, sulla base del riconoscimento che il secondo mostra nei confronti delle leggi emanate dal primo. E’ questo il fondamento di un costituzionalismo repubblicano, includente e condizionante allo stesso tempo, che s’ispira alla logica della responsabilità dichiarata dal “noi” e, dunque, ostile all’ “io” come imperativo egoistico. Lo Stato nazionale europeo – osserva Scruton – emerse quando l’idea di comunità definita partendo da un territorio venne iscritta in sistema di sovranità e di leggi. Dunque, “è vitale al senso di nazione l’idea di un territorio comune nel quale ci siamo tutti insediati e che tutti abbiamo identificato come la nostra casa”. Per questo motivo “la fedeltà nazionale è fondata sull’amore per un luogo, per le usanze e le tradizioni che sono state iscritte nel paesaggio e nel desiderio di proteggere quelle cose belle attraverso leggi comuni e una comune fedeltà”.
Insomma, una suggestiva difesa della nazione in tempi in cui l’avversione dello Stato nazionale e, più in generale, il rifiuto della stessa idea nazionale sono largamente diffusi e riflettono uno stato d’animo che Scruton definisce “oicofobia” cioè la tendenza che in qualsivoglia tipo di conflitto si denigrano usi, costumi, istituzioni, cultura “nostri” ripudiando così la lealtà o la fedeltà nazionale, prendendo sempre e comunque le parti di organismi trasnazionali supportandone le direttive, come capita, per esempio, quando si sostengono sempre e comunque le decisioni dell’Unione europea o delle Nazioni Unite. L’appassionata difesa della nazione Scruton la completa con un lucido atto d’accusa allo “Stato mercato” che concepisce il legame tra cittadino ed istituzioni come un contratto dal quale il primo si attende benefici in cambio di obbedienza. E’ l’anticamera del totalitarismo moderno. Il trionfo del relativismo culturale applicato alla sfera della politica. Il bisogno della nazione implica coscienza identitaria e cultura dell’appartenenza. Su questi pilastri si reggono comunità capaci di affrontare le minacce del dispotismo e dell’anarchia.
La Nazione, un’idea antica che si rinnova
La nazione è, dunque, un’idea antica che si rinnova. Credere di poter evitare di riferirsi a essa nel difficile tentativo di modernizzare le istituzioni pubbliche è come voler attraversare un deserto privi di generi di sostentamento. Purtroppo l’errore che spesso, e da più parti viene commesso è quello di pensare che la nazione sia un’anticaglia sentimentale, un cascame retorico e non, com’è in realtà, un «organismo vivente» i cui elementi, se non armonizzati, rischiano di produrre conflitti difficilmente sanabili. Questo errore, con tutta evidenza, è affiorato quando si è pensato di riformare il sistema costituzionale italiano senza tener conto dei valori a cui ispirare tale lavoro che, mi sembra incontestabile, non possono che essere i valori della nazione e dell’integrità dello Stato nazionale. L’ingegneria costituzionale, senz’anima e priva di prospettive comprensibili dai cittadini, può partorire soltanto progetti velleitari; le grandi Costituzioni sono tali quando i principi che affermano sono in sintonia con lo spirito dei popoli. Uno degli errori del costituzionalismo moderno è consistito nel ritenere di poter fare a meno della nazione: non a caso uno dei pochi esperimenti del Novecento riusciti è stato quello del generale De Gaulle perché profondamente legato alle istanze del popolo francese. Questa dimensione che esplicita il sentimento dell’appartenenza appena richiamato, è possibile coltivarla, difenderla, affermarla? Credo che tutte le forze politiche autenticamente popolari e innestate nella storia nazionale abbiano il dovere di rilanciarla al fine di contrastare sia le spinte disgregatrici che dall’interno operano per una rottura della comunità nazionale, sia l’invadente relativismo etico che dall’esterno si propone il fine di recidere legami culturali grazie ai quali si tiene insieme il Paese.
La prospettiva, insomma, è quella di dare vita a una «nazione condivisa», cioè accettata da tutti a prescindere dalle appartenenze, per dare un senso concreto al sentimento che sorregge l’idea stessa di nazione: il patriottismo. Com’è facile dimostrare, esso non può essere quello della Costituzione, come pure qualcuno ha sostenuto, né quello astratto pronto a farsi supporto ideologico a scopo di sopraffazione. Il patriottismo è il vincolo comunitario tra elementi reali che fanno parte della vita; non è escludente, ma inclusivo; non è la suprema forma dell’egoismo collettivo, ma la prova di generosità di un consapevole aggregato umano conscio che la sua sovranità finisce laddove comincia la sovranità di altri; è il rispetto che si deve ad altre culture, a tutte le culture perché manifestazioni dello spirito dei popoli e che sarebbe delittuoso cancellare. Patriottismo e democrazia, dunque, si tengono, poiché, come osservava Lucien Febvre, il fondatore della scuola degli Annales, la patria «è una parola astratta, presa in prestito, una parola classica, certo; ma che ben presto si è riempita di sostanza umana, di sostanza individuale, di sostanza vissuta». È questa «sostanza» che la legittima, in un certo senso. Perciò l’amor di Patria, per come storicamente si è incarnato, può dirsi un’estensione dell’«amor proprio».
I moralisti francesi del Settecento dicevano che ci si ama veramente soltanto amando la Repubblica e alla fine si arriva ad amarla più di se stessi. Henry Jean-Baptiste d’Anguessau, che scriveva di politica nel Diciottesimo secolo, a proposito del patriottismo si chiedeva: «Questo amore pressoché connaturato all’uomo, questa virtù che conosciamo attraverso il sentimento, che acquisiamo attraverso la ragione, che dovremmo seguire per interesse, davvero possiede delle radici profonde nei nostri cuori?». Per quanto possa sembrare strano di questi tempi, la risposta è assolutamente affermativa. E le radici profonde del patriottismo sono in tante cose che riassumono la nostra identità. Basta cercarle, scansando i gadget del pensiero unico e del materialismo pratico. Ma occorre anche indirizzare la ricerca verso forme che garantiscano la coincidenza del sentimento patriottico con la la necessaria sovranità da ristabilire.
E la sovranità non può che essere quella dello Stato-nazione, non già dunque del popolo astrattamente inteso, né quella di una nazione indefinita e mutevole a seconda dei processi di aggregazione o di disaggregazione delle comunità soprattutto quando il loro principio ordinatore, cioé statuale, viene meno. Roberto Michels, il grande sociologo tedesco che scelse l’Italia come sua patria, in Prolegomena sul patriottismo, un testo del 1928 da rileggere di questi tempi, scrisse:
“La nazione è il presupposto logico dello Stato, la sua premessa storica. Il rapporto che intercede tra i due concetti si può esprimere anche con la formula paracelsiana anima petit corpus: l’anima sarebbe la nazione, il corpo lo Stato… La storia moderna dei popoli, infatti, non è, in sostanza, che una serie ininterrotta d’irredentismi, in cui le nazioni, già nate e formate nella scienza e nella coscienza, affannosamente e con ogni mezzo hanno cercato il loro scopo, il loro completamento e compimento, nello Stato da creare, o, se già creato altrove, cui aggiungersi. È dunque la nazione che cronologicamente precede, e dà vita allo Stato. Con ciò non vogliamo negare la potenza creatrice che lo Stato esplica anche in riguardo alla nazione. Lo Stato con le sue leggi, con il suo prestigio, foggia la nazione, la raffina, la amalgama meglio”
Una resistenza culturale
Dunque, nazione e Stato sono complementari, ma il secondo non può svolgere la sua funzione nei confronti della prima se non contiene in se stesso gli elementi nazionali che lo legittimano ad operare in vista della tutela della coesione comunitaria. Se, al contrario, gli elementi costitutivi dello Stato contengono troppa disparità tra di essi – dalla lingua alla percezione del senso comune, dalla differenza accentuata tra terre e popoli all’autonomia rende dissimili profondamente le regioni, dell’istruzione scolastica al sistema tributario e via seguitando – se, insomma, non costituiscono le fondamenta su cui costruire uno Stato nazionale, dunque una comunità organicamente omogenea, è fatale la dissoluzione della stessa sovranità dalla quale, inevitabilmente, discenderanno sovranità contrastanti e dunque la dissoluzione della nazione e dello Stato stesso. E concludeva Michels:
“La questione della priorità della nazione sullo Stato è quindi logicamente e storicamente risolta. Anche in questo campo vige la norma che il tutto precede la parte. Infatti lo Stato non è che una parte, sia pur sostanzialissima del tutto, che è la nazione, fondata sul sentimento. E su questo punto non si può non essere d’accordo col Panunzio ( Sergio Panunzio, Il sentimento dello Stato, 1920, NdA) allorquando egli avverte che nulla è lo Stato forte e sovrano, lo Stato-istituto, senza il sentimento dello Stato, e che lo Stato non è veramente forte nei suoi organismi istituzionali e nella sua funzione giuridica, se non è forte e vivo il sentimento di esso, che è come il suo ardente fuoco centrale”
Oggi si può dire che lo Stato nazionale quale lo intendiamo rifacendoci alla cultura politica degli ultimi due secoli, incarni quegli elementi che ne fanno presupporre la legittimità a rivendicare, tutelare e veder riconosciuta la propria sovranità? Forse è il caso di sottoporre la materia ad un vaglio meno approssimativo di come si fa solitamente ammettendo che una “nazione in coma”, per usare la felice espressione di Piero Buscaroli, ed uno Stato disfatto non si capisce quale sovranità possano pretendere. E che senza sovranità i popoli sono facilmente assoggettabili, come è accaduto a quelli europei attraverso un sistematico “lavaggio del carattere”, come chiamò lo spossessamento delle identità, il pensatore conservatore tedesco Caspar von Schrenck-Notzing, dopo la Seconda guerra mondiale cui seguirono l’occupazione di fatto dell’Europa e la lunga colonizzazione culturale che ne ha modificato sostanzialmente i connotati, nonostante cospicue sacche di resistenza culturale che in settant’anni si sono adoperate per tenere in vita i valori europei.
Lascia un commento