di Andrea Scaraglino
Uno dei temi più inflazionati della nostra epoca è sicuramente la globalizzazione. Molti aspetti di quest’ultima sono stati sviscerati e, al netto di un’onestà intellettuale sempre più calante nel mondo accademico, non si può affermare di non conoscerla, almeno nei suoi accenti più visibili. Ciò che secondo chi scrive è, invece, ancora poco indagato sono certi effetti psichici che la nascita del villaggio globale ha imposto ai singoli e conseguentemente alle varie società occidentali. Effetti deleteri ed estremamente pervasivi; scaturiti dal materialismo e dal mito del progresso fine a se stesso, due aspetti imprescindibili per il mantenimento dello status quo globalista. Del resto, la globalizzazione, imponendosi principalmente come fenomeno economico, prima che politico e sociale non ha minimamente pensato alle conseguenze del suo nefasto potenziale. Chi pensa che il tutto sia scaturito solo ed esclusivamente dal contrarsi delle distanze fisiche tramite la tecnica e l’abbassamento dei costi di spostamento commette un grossolano errore e dimostra di non conoscere la storia, o almeno, di non saperla interpretare come una continua concatenazione di cause ed effetti. Ora, senza dilungarci sull’analisi del materialismo contemporaneo che dal 1789 ha caratterizzato la storia occidentale fino ai giorni nostri, scandagliamo certi aspetti della nostra quotidianità che diamo per scontati, ineluttabili, forse anche positivi, ma che, al contrario, sono il segno più tangibile di un servaggio odioso impostoci da una “filosofia” disumana come quella globalista. Per farlo dobbiamo comunque analizzare, anche se brevemente, i primi passi del capitalismo atlantico nel XIX sec e da lì giungere alla cronaca odierna.
Gli aspetti economici che contraddistinguono la nostra epoca
Il tutto nasce dalla concezione protestantica della predestinazione. In parole povere chi riusciva nella vita, sia a livello personale che economico, veniva inteso a livello societario come un uomo benvoluto da dio, che permetteva al soggetto in questione di farsi strada nella società perché incarnava i nuovi valori cristiani che sorsero in America all’indomani dell’indipendenza dall’impero britannico:“Il XIX secolo tentò di esprimere tutti i valori in termini monetari. Ogni cosa aveva il suo prezzo. Le opere di carità erano un dovere morale perché l’uomo generoso disporrà di appoggio, mentre l’avaro meschino e poco caritatevole sarà sfuggito.” O ancora:“Il peccato di orgoglio”, ad esempio, “non tanto offendeva Dio, ma conduceva a spese esagerate. Un uomo orgoglioso e vanitoso se lasciato libero di esercitare tutto il suo potere, è l’eterno cancro che divora gli elementi essenziali delle proprietà terrene di un uomo.”1
Dunque, la reductio ad libitum del Sacro e un feroce individualismo, furono i caratteri principali del materialismo di marca atlantica. Una visione dell’essere umano che nel secolo successivo si tramutò ancora, arrivando a porre le basi del parossismo odierno. Infatti, la visione della società monetizzata, anche se ipocritamente, continuava ad imporre dei legami tra gli individui, differentemente nel XX secolo la competizione tra simili assunse sempre più importanza scardinando definitivamente ogni aspetto di comunità organica. “La burocratizzazione della carriera aziendale mutò le condizioni della promozione individuale; i giovani ambiziosi dovevano ora competere con i loro colleghi per ottenere l’attenzione e l’approvazione dei loro superiori. […] Il capitano d’industria lasciava il posto allo spregiudicato affarista, maestro nell’arte di padroneggiare le impressioni. Ai giovani veniva detto che, se volevano riuscire, dovevano vendersi.”2
Vendersi in senso lato, vendere la propria parola, i propri principi ma anche e soprattutto la propria immagine. Riducendo la propria persona a semplice mercanzia mercanteggiata su di un banco astratto dove il modo in cui si valuta la propria persona è già l’idea che gli altri, speri, abbiano di te. Un cartellino con il prezzo che ci ricorda che “nulla ha successo come l’apparenza del successo.”3
Questo meccanismo a livello psichico è quotidianamente sotto i nostri occhi e esprime la sua massima virulenza nel nostro rapporto con i social che da da strumento passivo della nostra azione si sono tramutati in soggetto astratto, ma primo, della nostra personalità; costringendoci a passare – in una prefigurazione di tipi umani – dal, cosiddetto, Homo reciprocans, costituito da una sostanziale capacità di interazione disinteressata con gli altri individui, all’homo oeconomicus.
Un individuo votato e legato a un categorico mantra sociale ben definito: “io posso”. Un ordine interiore che assume le caratteristiche “di un dovere, cioè di un obbligo morale ben diverso da quello che contraddistingue, per esempio, l’esistenza del typus melancholicus vincolata dall’- Io devo – che lo impegna a essere per l’altro e a contribuire all’ordine e all’armonia nel proprio ambito sociale”. Un uomo, dunque, spettacolarizzato e che lega la considerazione di se stesso ai traguardi materiali raggiunti; avviluppato in una spirale protestantica che tende a distruggere gli ultimi riverberi della presenza idealistica e spiritualista nella sua esistenza si espone a rischi altissimi, data l’impossibilità umana a “vincere” senza soluzione di continuità, di “infarti psichici”4. Ovvero a dei veri e propri cortocircuiti di iper – responsabilizzazione personale che rendono l’uomo contemporaneo insoddisfatto e depresso e conseguentemente ricattato dal bisogno del consumo, unica valvola di sfogo all’insoddisfazione personale. Un cerchio perfetto in cui l’individuo in questione, dimentico della sua natura sociale, si affanna in una corsa inconcludente, funzionale, solo, al mantenimento dello status quo neo – liberale.
Sempre Lasch ci ricorda: “ la propaganda– ne siamo completamente circondati –trasforma in merce l’alienazione stessa. Essa si appunta sulla desolazione spirituale della vita moderna per proporci il consumo come rimedio. Non solo promette di mitigare quell’infelicità che da sempre è retaggio della carne; crea o esaspera nuove forme di infelicità: l’insicurezza personale, la preoccupazione per il proprio status sociale, la paura insormontabile per la crescita di responsabilità dell’età adulta […].”5 In queste condizioni, l’uomo non può più pensare di essere il riflesso di un passato e conseguentemente non può affrontare il futuro; al massimo può subirlo, riducendosi succube dell’idea di se stesso che la pubblicità, istituzionalizzando invidia e tormenti annessi, gli ordina di incarnare: pseudo-consapevolezza di se, direbbe Lasch.
La politica “pubblicitaria”
Come è facile immaginare, da un campo personale questi fattori si spostano in quello sociale e politico. Di fatti è nella teatralità societaria che si annidano i peggiori risvolti del narcisismo patologico; un palcoscenico di quint’ordine che annulla ogni struttura reale o finalità sostanziale nella vita umana. I politici come i pubblicitari non cercano soluzioni a problemi effettivi, ma ne creano di fittizi per poter vendere la loro inconsistenza, professionale e umana. La sostituzione delle problematiche sociali con quelle civili è l’esempio principe di questa pantomima che i media spacciano per politica. Quest’ultima, rappresentata in pieno dai movimenti progressisti che dal ’68 in poi hanno “colorato” le piazze di tutto l’occidente e non, si presenta ai contemporanei come una compagnia teatrale che ha dato un tetto a chi intendeva esprimersi “in una nuova forma di drammatizzazione personale.”6 Ispirato da una lunghissima sequela di guru più o meno affermati, il mondo progressista e liberal ha completamente destrutturato il complesso ideale della sinistra. Se da una parte questo ha definitivamente sgombrato il campo da ipocrisie e farneticazioni ottocentesche, dall’altra ha reso il materialismo un monolite unico che incarna sia l’opulenza capitalista sia l’impegno sociale. Un binomio che si presta benissimo alla spettacolarizzazione che le masse narcisistiche si aspettano di incarnare e dunque difficilissimo da scardinare: “Ai margini del movimento radicale molte anime tormentate inseguivano un martirio reso doppiamente desiderabile dal fascino della moderna pubblicità. La sinistra, con la sua visione di rivolta sociale, ha sempre attirato una folla di squilibrati, ma i media hanno conferito alle azioni antisociali un curioso genere di legittimità.”7
È in questo contesto ditotale estraneazione dalla realtà che l’agenda politica delle nazioni occidentali si è pian piano strutturata sul nulla, lasciando alle agenzia di stampa e a spettacolari fenomeni da baraccone il compito di stilare l’azione di governo e le priorità della società stessa.
Il neocapitalismo – inteso come espressione economica e sentimentale della società – si configura come il più pervasivo e subdolo dei totalitarismi e del resto, soffermandoci a considerare i mutamenti della quotidianità occidentale degli ultimi decenni non si può non riscontrare un mutamento antropologico totalizzante che ha portato la società verso una mondanità e un consumismo libidinale che hanno distrutto i tradizionali legami societari. Dietro il finto e ipocrita mito del progresso fine a se stesso, esasperato da una classe intellettuale asservita e funzionale allo status quo, si cela il perverso disegno, come ci ricorda l’eretico filosofo marxista Clouscard, di: “esasperare il consumo dell’emancipazione-trasgressiva per raggiungere la crescita massima, instaurare il disordine immorale, dissolvere le istituzioni della nazione, affinché il funzionamento delle imprese divenga, a un tempo, infrastruttura e struttura, sola istanza produttrice della merce e dello stile del suo consumo, perché, infine, estetica, merce ed etica siano una sola e unica cosa e regnino su individui massicciamente schizofrenici, abbandonati alle dispersioni trascendenti e alle partecipazioni panteistiche, del più fantastico spiegamento di mass-media, di giochi, di droghe e di feste”8. Una festa collettiva e continua che corre veloce sulle piattaforme social, al lavoro, in famiglia, in politica e perfino dentro al letto. Con i singoli “illuminati” impegnati nella difesa di ogni più piccola minoranza –“in virtù delle loro sofferenze passate”9– ma completamente distante dalla massa che si barcamena per far quadrare i conti che il materialismo ha irrimediabilmente scompaginato, sia economicamente che psicologicamente. La mistificazione della realtà quotidiana attraverso i media, unita a una sovraesposizione valoriale derivante da figure di riferimento sempre più stereotipate e disumanizzanti sono stati il fulcro su cui incardinare la nascita della nuova società neo – liberale o se vogliamo, narcisista tout court. Gli individui appartenenti a quest’ultima, dunque, si sono visti proporre una vita mitizzata, dove le possibilità sono infinite e si può essere ciò che si vuole. Ne consegue un appiattimento classista effimero, di certo non reale, che si continua a reggere su le rate e gli interessi che servono a costruire il palcoscenico della propria inconsistente felicità e l’incapacità generalizzata ad immaginare soluzioni migliori per se e naturalmente su scala sociale. Questo disimpegno dalla sfera comunitaria, corroborata da una narrazione anche accademica mai così totalitaria, ha permesso una continua e quasi impercettibile distruzione delle conquiste sociali che le classi lavoratrici erano riuscite ad ottenere nel XX sec.10
E’ indubbio, infatti, che sia da un punto di vista della spesa pubblica sia da quello meramente salariale, la disponibilità economica delle classi popolari occidentali si sia livellata sempre di più verso il basso. L’uomo occidentale odierno, essendo strozzato tra la visone atomistica di se e il bisogno continuo di colmare vuoti esistenziali tramite la materia, rappresenta l’archetipo perfetto per il perpetuo proseguimento del ciclo capitalista, che è giusto ricordarlo, ha ancora di più accresciuto i propri guadagni dal crollo del costo del lavoro e dagli interessi che le masse hanno pagato per accaparrarsi l’inutile paccottiglia che le rende appagate. Lasch ci ricorda: “Nel periodo dell’accumulazione primitiva, il capitalismo subordinava l’essere all’avere […] ora subordina il possesso stesso all’apparenza e calcola il valore di scambio di una merce in base al prestigio che essa può conferire: l’illusione di prosperità e benessere.”11 Come se non bastasse, ogni voce fuori dal coro è sistematicamente stritolata dal sistema politico-giudiziario-mediatico che all’occorrenza si difende con le armi della ridicolizzazione con le figure di contorno e quelle della criminalizzazione con chi realmente può mettere in crisi il sistema. La storia italiana è piena di questi esempi e senza fare la lista dei procedimenti penali o delle eliminazioni fisiche subite da più o meno importanti figure politiche-intellettuali basta ricordare il peccato originale che da solo serve a relegare qualsiasi figura scomoda nella lista degli impresentabili: il fascismo. O l’idea, anche velata, che qualcuno possa avvicinarsi a concezioni assimilabili al passato regime. La scusa del male assoluto, del resto, è rimasto l’ultimo appiglio o leva sentimentale per una classe politico intellettuale che negli ultimi decenni è passata da una professione ortodossa del marxismo-leninismo alla più stratta osservanza capitalista. Non che la cosa debba meravigliare, come abbiamo visto non è stato altro che il normale evolversi del materialismo; rimaneva comunque da giustificare la giravolta “politica” all’opinione pubblica che difficilmente, distratta com’è, poteva accorgersi delle motivazioni più profonde. Gridare al fascismo, in assenza totale, di fascismo12 è rimasta, dunque, l’ultima carta da giocare per una classe dirigente inappropriata e totalmente sottomessa a volontà estere, nonché unica espressione possibile per una società cosi oramai catatonica. Federico Rampini, uno dei pochi critici interni al monolite materialista, scrive: “Smettiamola di usare quotidianamente il linguaggio della scomunica, di alzare grida d’allarme come se la democrazia italiana fosse minacciata ogni giorno dalle prevaricazioni e dall’autoritarismo degli altri.”13 O ancora: “Troppo autoassolutoria, confortante, questa rappresentazione. Quanta presunzione, quanta arroganza, nell’autodefinirsi minoranza eletta, moralmente superiore, l’unica a detenere valori degni di questo nome.” 14 Voce singola e troppo debole per incidere su una “massa”autoreferenziale e in disperata ricerca di approvazione, e che quindi rimarrà isolata e sconfitta.
Dopo la politica, l’economia e la psiche dei singoli bisogna ancora indagare l’ultimo aspetto della vita umana che il materialismo ha intaccato: l’amore, o più prosaicamente, il rapporto uomo donna e ciò che ne consegue.
La famiglia globalista
Se da una parte Simone de Beauvoir non sbagliava troppo nell’intendere la donna come una “vittima bisbetica” che doveva scrollarsi di dosso l’oppressione paternalistica dell’uomo, dall’altra, è certo che la lotta femminista odierna tenda solo a rovesciare il problema, di certo non a risolverlo. Siamo di fronte ad una radicale lotta che in base al livello di coscienza delle sue combattenti è più o meno spirito di rivalsa e null’altro. Come già nel campo politico-culturale, anche nel femminismo si possono scorgere quelle figure illuminate che, come dei guru d’altri tempi, indicano la via alla massa da indottrinare. Non è difficile, infatti, scorgere il proliferare di figure più o meno discutibili che, in virtù della loro capacità di attrazione mediatica, cominciano ad intessere una lucrosa campagna di indottrinamento – mediante libelli, pagine social o spazi autogestiti – per fornire alle meno addentrate compagne “un’illusoria utopia di matriarcato.”15
Quest’ultima si riversa come piombo fuso sui rapporti personali, incenerisce romanticismo, cavalleria e millenari aspetti di corteggiamento e convivenza. Il maschio, sempre più stordito da un così repentino mutamento comportamentale, reagisce come un moscone impazzito contro la “lampadina del bagno”. Del resto, vivere in una società ipersessualizzante, dove il rapporto con il maschio è indispensabile alle donne per appagare il bisogno di sentirsi libere da e uguali ai vecchi “carnefici”, non è certamente facile. Ricercato in quanto oggetto di lotta, feticcio della riscossa, ma rifiutato sul campo sentimentale perchè emblema di antichi lacci patriarcali, al maschio non resta che arrendersi al continuo dipanarsi di rapporti effimeri che difficilmente potranno trasformarsi in famiglie e stabilità emotiva. Bertrand Russel scriveva in merito: “[la socializzazione della riproduzione avrebbe] svuotato di significato persino l’amore di tipo sessuale, incoraggiato una certa superficialità in tutte le relazioni individuali e ulteriormente ostacolato l’interesse per qualsiasi cosa al di là della propria vita.”16
La distanza che si è venuta a creare tra uomo e donna, dunque, non può non riverberare la sua malsana influenza sull’educazione della prole. Sorvolando, eufemisticamente parlando, sull’inverno demografico che ne consegue, è impossibile non riscontrare una difficoltà di indirizzo dell’educazione verso lidi di equilibrio mentale e sentimentale dei nuovi nati. La svalutazione della figura paterna, primo e più importante passo per la prosecuzione della problematica edipica che impedisce la formazione di un super-io strutturato e funzionale alla vita sociale17, implica al suo interno quella di tutta l’istituzione familiare. Quest’ultima, attaccata moralmente ed economicamente, non può far altro che arrendersi a figure e istituzioni terze. La scuola, i servizi sociali e la pubblicità “sono subentrati ai genitori in molte delle attività educative”18 esponendo il bambino ad un sistema valoriale fatto di burocrazia e aprioristiche scelte coercitive che non possono non incidere sullo sviluppo psichico del soggetto in questione. Altro aspetto da non sottovalutare è quello dell’esposizione dei bambini alla vita sessuale degli adulti. Soprattutto nella scuola si crede che la semplice narrazione scientifica intorno al sesso basti a spiegare in toto la sua complessità e portata. Il non aspettare tempistiche più soft, che permettano all’adolescente di approcciarsi con la giusta dose di esperienza, emotiva si intende, all’atto in se; molto spesso nasconde, anche, il tentativo “dei mass-media, di stuzzicare il pubblico giovanile”19, un mercato ancora troppo poco sfruttato riguardo alle tematiche sessuali e affini.
La mercificazione di ogni più intimo aspetto della vita umana porta il materialismo al suo apice di pervasione societaria e potenza politica. Destruttura completamente i rapporti personali e agisce quotidianamente sulla psiche di tutti. Attraverso la pubblicità, i mass media, i social, l’accademia e la politica raggiunge ogni angolo del globo e della nostra mente. Nella vecchia Europa, almeno quella mediterranea, molti singoli possono ancora sentire un disagio interiore a riguardo, ma senza una forza politica e/o intellettuale che guidi e sintetizzi organicamente questo sentire istintivo, il senso di colpa, il disprezzo, l’infamia, la paura di essere ghettizzato vinceranno sempre sulla troppo debole volontà dei singoli. Per chiudere questa incursione nel nostro triste presente, le parole di Lasch sembrano, ancora una volta, le più appropriate: “il mondo delle merci sta a sé, come qualcosa di completamente separato dall’io; eppure simultaneamente assume l’aspetto di uno specchio dell’io, di un’abbacinante esposizione di immagini in cui possiamo vedere tutto quello che vogliamo. Invece di creare un ponte tra l’io e il suo ambiente, annulla la differenza tra di essi.”20 Rimarcando, all’infinito, quella prigione dello “spirito” che da troppo tempo aspetta di essere, parafrasando Pavese,“posto sulla materia”21.
1C. Lasch, La cultura del narcisismo, Neri Pozza, Vicenza, 2020, p. 78.
2Ivi, p. 79.
3Ivi, p. 80.
4In merito si consiglia la lettura del saggio di T. Accinni, F. Ghezzi e F. Di Fabio, Narcisismo contemporaneo e sviluppi paranoidei, in Rivista di psichiatria, Il pensiero scientifico editore, Vol. 56, N° 1 – Gen./Feb 2021, pp. 46 e sgg.
5C. Lasch, La cultura…, op. cit., p.97.
6Ivi, p. 108.
7Ivi.
8M. Clouscard, Il capitalismo della seduzione, Ursae Coeli, 2019, p. 113.
9C. Lasch, La rivolta delle elitès, Neri Pozza, Vicenza, 2017, p. 14.
10“In totale, pertanto, l’occupazione flessibile – regolare o irregolare – coinvolgerebbe in Italia tra i 7 e gli 8 milioni di persone fisiche, più di 3 milioni di doppiolavoristi non dichiarati, corrispondenti a 1 milione di unità lavorative a tempo pieno. Ne consegue che le persone fisiche coinvolte in varia misura nell’occupazione flessibile [ leggi incapace di progettare il proprio futuro] ammonterebbero, nell’insieme a 10-11 milioni”. L. Gallino, Il lavoro non è una merce, Laterza, Bari, 2009, p. 25.
Praticamente poco meno di 1/3 della popolazione attiva italiana. Questi numeri, di per se già atroci, devono essere letti in prospettiva e dato l’andazzo del nostro “mercato” (sic!) del lavoro non potranno che peggiorare.
11C. Lasch, La cultura…, op. cit., p. 96.
12Il fascismo si contraddistingue per la sua totalizzante presenza all’interno della società. Il totalizzante è da intendere in senso gentiliano, ergo, si espande dalla sfera spirituale a quella materiale dell’uomo. Per essere in presenza del fascismo si deve, dunque, notare una corrispondenza massiccia [o quantomeno tendente a] tra stato e individuo e viceversa. Il tutto senza divisioni di parte. Il sistema corporativo, negante le divisioni tra capitale e lavoro e cinghia di distribuzione dell’unica volontà nazionale, ne è un esempio fattivo.
13F. Rampini, La notte della sinistra, Mondadori, Milano, 2019, p. 149.
14Ivi., p. 4.
15C. Lasch, La cultura…, op. cit., p. 238.
16B. Russell, Matrimonio e morale, Longanesi, Milano, 1961, p. 127.
17“Nel suo insieme , la teoria psicoanalitica porta alla conclusione che il normale sviluppo psicologico non può essere inteso semplicemente come una sostituzione dell’autorità patriarcale al principio di piacere o come una separazione assoluta dalla madre. Porta, in altre parole, alla conclusione che una soluzione soddisfacente del complesso di Edipo accetta il padre senza tradire la madre.” C. Lasch, L’io minimo, Neri Pozza editore, Vicenza, 2018, p. 159.
18C. Lasch, L’io…, op. cit., p.168.
19Ivi.
20Ivi, p. 176.
21C. Pavese, Il taccuino segreto, Aragno edizioni, Torino, 2020, p. 16n.
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