Di Andrea Muratore
Il 2020 sarà universalmente ricordato come l’anno in cui nelle società più avanzate si è prodotta una grande frattura. Per la prima volta nell’era globalizzata una pandemia si è diffusa su scala mondiale, portando al rallentamento e in certi casi alla sospensione di una componente fondamentale del processo di interconnessione planetaria (commerci, movimenti di esseri umani, flussi di capitali) e all’iper-accelerazione della sua componente digitale e immateriale. Parimenti, il Covid-19 è arrivato laddove non erano giunte le grandi emergenze vissute dalle società occidentali nel precedente scorcio di secolo, sia quelle veramente esistenziali (come la crisi finanziaria del 2007-2008) che quelle più emotive (il terrorismo): la pandemia ha messo a rischio la stessa prospettiva esistenziale delle società più opulente, ne ha demolito le fondamenta più fragili, ne ha portato in emersione le contraddizioni.
Il timore della perdita della vita e la sopravvivenza fisica sono diventate questioni prioritarie e temi ultimi di azioni politiche emergenziali; la retorica “tutti sulla stessa barca” ha portato molti cittadini delle nazioni occidentali a interrogarsi su quanto la verità di questa espressione dipenda dalla dimensione della barca stessa, cioè dalle condizioni materiali di partenza; le classi politiche, come ha ricordato Aldo Giannuli in “Coronavirus: globalizzazione e servizi segreti”, si sono dimostrate in larga parte inadatte sia a governare efficacemente l’emergenza sia a capire le istanze messe in campo dalla pandemia.
Caduta l’illusione del pronto ritorno alla normalità, mancata totalmente qualsiasi reale riflessione sul processo di convivenza con la pandemia, fallita la sfida della seconda ondata in pressochè tutti i principali Paesi europei ed occidentali, intensificatosi lo iato tra il modello occidentale tradizionale e quelli delle potenze asiatiche, capaci di domare o contenere il virus in tempi stretti e di valorizzare il loro capitale sociale nel migliore dei modi, il 2020 ha portato con sé pandemia, recessione, spaesamento.
Molte previsioni economiche parlano di pronti rimbalzi nel Pil e puntano pressochè esclusivamente sui vaccini come fattori di garanzia di un pronto ritorno alla normalità nel 2021. Ma i vaccini necessitano di tempo per essere prodotti, distribuiti, inoculati, la loro logistica è un’azione dalla forte criticità strategica, ed è bene ricordare che una pandemia non finisce con l’ultimo guarito, ma con il totale superamento dei suoi impatti psicologici, sociali, economici. E anche le speranze di una pronta ripresa della produzione e dei consumi appaiono abbastanza lasche.
Il 2021 sarà l’anno in cui, sul fronte economico, si susseguiranno forti dibattiti riassumibili nella necessità di capire lo sviluppo della dicotomia tra ripresa e incertezza[1]. Tra le prospettive di chi vede che l’economia può tornare a correre, i commerci a filare lisci e una nuova normalità a costituirsi e chi, più cauto, non vuole commettere eccessivi errori di valutazione.
Sul fronte politico internazionale, invece, resteranno sul cammino delle potenze le mine disseminate da un anno in cui la competizione globale si è fatta sempre più sotterranea e accesa, in cui i sistemi-Paese hanno avviato una serrata competizione per gli asset sanitari e biomedicali, avviato la messa a terra di politiche di protezione dei comparti finanziari e industriali più strategici, rinnegato definitivamente la narrazione bonaria della globalizzazione non solo sul fronte pratico ma anche su quello retorico.
Sarà un anno caldo, per molti Paesi, soprattutto sul fronte interno. La risposta emergenziale alla pandemia ha portato Stati e autorità monetarie a unirsi per promuovere politiche d’emergenza per la tutela di imprese, posti di lavoro, mercati, per alleviare i rischi legati alle garanzie bancarie sui prestiti, per evitare crisi di liquidità o fughe di capitali. In molti Paesi, Italia compresa, presto queste politiche avranno definitivamente fine. E si dovrà fare i conti con lo smottamento delle macerie materiali, economiche e umane della crisi, con le sue conseguenze di lungo periodo.
Gli Stati Uniti hanno avuto lo shock della catastrofe occupazionale ad inizio pandemia, quando il numero dei senza lavoro ha toccato quota 41 milioni; in Europa l’inverno potrebbe arrivare proprio in occasione dell’apparente disgelo primaverile. Tensioni sociali e questioni legate alla rivendicazione di diritti e opportunità possono infiammare a lungo le nostre società dopo che la percezione di una disuguaglianza sempre più crescente e odiosa tra le classi medie in recessione e i “vincenti” della crisi (membri della finanza, dei settori più innovativi, del top management) sarà sempre più endemica.
Prendiamo il caso simbolo degli eventi che hanno maggiormente occupato il dibattito a inizio anno, gli assalti al Campidoglio di Washington. Fabrizio Barca, uno degli economisti più lungimiranti e preparati di questo Paese, ha offerto una chiave di lettura complessa e profonda sul tema dell’assalto di Capitol Hill [2]. Troppo facile guardare alla conseguenza (i barbari) e non alle cause. Certo, Trump ha la responsabilità di aver eccitato gli animi di questi uomini e di queste donne, di averli usati come strumento di ostacolo politico alla nascita dell’amministrazione Biden. Ma, si chiede l’ex ministro intervistato da “La Stampa”, bisogna anche domandarsi: cosa li ha fatti sentire così spavaldi? Cosa li ha resi un’avanguardia? Chi entrava al Campidoglio sembrava comportarsi come se avesse alle spalle l’intero popolo americano[3]. C’è un risentimento profondo che cova nelle società occidentali: e il primo motore di questo sentimento è dovuto alla sempre più percepita disuguaglianza di opportunità, possibilità e accesso ai servizi essenziali che in America tocca il suo apice[4]. E produce esplosioni magmatiche quando la politica non riesce a capire certi bisogni.
In Europa potrebbe essere presto così, e allora non potremo parlare di “cigni neri”[5]. Non è dai dati del Pil che si vedrà se e quando l’onda lunga della crisi pandemica sarà riassorbita, ma dovremo valutare un’ampia gamma di parametri: il tasso di occupazione, la qualità del lavoro a tempo indeterminato, l’avanzamento dei salari, indicatori del disagio come il tasso di povertà e di abbandono scolastico, trend demografici che tra picchi di mortalità e crollo delle nascite si faranno sempre più negativi. Tutte sfide complesse che nel 2021 daranno indicazione sulla loro evoluzione, in un contesto di grande incertezza e da cui l’Italia, ora più che mai, rischia di uscire con le ossa rotte. La necessità di un grande confronto politico per un progetto nazionale di lungo periodo appare ora più che mai impellente.
[1] https://www.ft.com/content/6ed46c9b-ce04-48c3-aa38-68efbc4eebb9
[2] https://it.insideover.com/politica/i-pericolosi-dolori-di-una-fragile-superpotenza.html?fbclid=IwAR3SAUD4-FqEPN5USmJEDzIhgUQIdnwStB1nkwmZVtJ-ntqfzHw_6sggVm8
[3] https://www.lafionda.org/2021/01/07/il-momento-commodo-dellimpero-americano/?fbclid=IwAR0dQk2jzraxjEwHMeVi4GuGQY3w7PtIRBXXn9GHrPlE_eQcpbOd0dYsNaw
[4] http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/divided-we-stand-la-crisi-del-modello-statunitense/
[5] http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/coronavirus-crocevia-globalizzazione-mondo-dopo-pandemia/
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