di Mario Bozzi Sentieri
A vent’ anni dal G8 di Genova, che cosa ne è del movimento no-global? Che fine ha fatto il mitico popolo dei giorni gloriosi del luglio 2001? Dov’è finita l’attesa rivoluzione dei proletari del sud del mondo? E del lungo elenco di aspettative, segno della parcellizzazione del movimento (più di mille sigle, che spaziavano dai beati costruttori di pace e dalle suore anglicane ai militarizzati militanti dei centri sociali di mezza Europa)? All’ordine del giorno di quella massa sterminata – ha ricordato Giovanni Mari (Genova, vent’anni dopo. Il G8 del 2001. Storia di un fallimento) – “la critica all’invadenza delle multinazionali e all’arrogante potere delle organizzazioni sovranazionali, lo stop alle guerre, la tutela dei beni comuni (acqua, scuola, sanità, infrastrutture viarie e digitali), la lotta alle malattie della casta politica, la richiesta di una fiscalità equa, il sostegno alle disabilità e alla povertà, lo stop alla vendita degli armamenti, un nuovo paradigma di politica ambientale, la spinta alle energie rinnovabili, la politica dei rifiuti zero e del riciclo, l’argine alle aberrazioni del neoliberismo, la rivendicazione della giustizia sociale e delle pari opportunità, l’abolizione dei paradisi fiscali, la tutela e la protezione dell’ambiente e della biodiversità, l’affermazione dei diritti dei lavoratori , dei minori, delle donne e dei disabili, la diffusione della democrazia e il boicottaggio dei regimi totalitari o illiberali, l’incentivo all’innovazione dell’economia circolare, il lavoro agile, il varo di nuove politiche di genere, la lotta alla dispersione scolastica, lo snellimento dei tempi della giustizia e l’impegno per il garantismo, il carcere per gli evasori fiscali, la tracciabilità dei flussi finanziari, l’aumento delle pene per i mafiosi, la lotta alla tratta di esseri umani, l’aumento degli investimenti pubblici per lo sviluppo e la ricerca, la tutela del consumatore”.
Rispetto al 2001, anno in cui il movimento no-global espresse una grande capacità di mobilitazione, ottenendo il massimo della visibilità mass-mediatica, poco o niente pare resistere di quella stagione se non le melanconiche e ripetitive ricostruzioni, fatte di buoni sentimenti (verso gli amici) e di tanto rancore (verso i nemici di ieri e di oggi).
Ecco allora – testi alla mano – il fuoco delle molotov, le vetrine in fiamme, le automobili usate come barricate, le manganellate (da una parte e dall’altra), le tute bianche ed i black bloc. Ed ecco l’immagine, dolorosa e drammatica, del giovane assalitore steso sul selciato, ucciso da un altro giovane, in divisa, al quale – dopo il procedimento giudiziario – è stata riconosciuta la legittima difesa, ma che per gran parte della vulgata corrente (di sinistra) rimane un assassino. Ed ancora gli immancabili richiami al potere cinicamente scagliato contro il “Pueblo Unido”. Oltre però non si va.
Come ha scritto Massimo Cacciari: “Se si parla ancora di Genova è per l’assurda violenza della ‘repressione’ e nessuno sembra più ricordare il contesto sociale e culturale in cui quei fatti maturarono”. Nel contempo le bandiere dell’ambientalismo – “il problema ecologico in tutta la sua ampiezza e complessità”, nota Cacciari – oggi sembrano essere state impugnate dalle multinazionali della comunicazione, dell’informatica, della logistica e poi via via di tutti i settori chiave del sistema produttivo. Sostenibilità fa rima con “salto tecnologico”, mentre l’ecologismo diventa strumento della globalizzazione. E non solo – aggiungiamo noi – l’ecologismo. A “dettare la linea” oggi è l’agenda 2030 dell’Onu.
D’altro canto di eredi di quella stagione non se vedono, né di ideologi in grado di leggere gli attuali contesti mondiali, segnati da un ventennio di fuoco, ben diversi dai drammatici giorni del luglio del 2001.
A ridosso del G8 di Genova – non dimentichiamolo – ci sono stati gli attentati del settembre 2001, con il crollo delle Torri Gemelle, nel cuore del World Trade Center a New York, con tutto quello che ne è seguito. Ha scritto Gilbert Achcar: “l’integralismo islamico è cresciuto sul cadavere in decomposizione del movimento progressista”.
Nel 2008 è fallita la banca Lehman Brothers e il mondo è stato testimone impotente di una delle peggiori crisi finanziarie della storia globale, ma senza che questo attivasse particolari reazioni popolari o “di classe”. “Occupy Wall Street” è durato lo spazio di un mattino. Le aspettative di Barack Obama non sono andate oltre qualche buon proposito. E nel gennaio 2017 infatti è arrivato alla presidenza degli Stati Uniti il “populista” Donald Trump. Negli ultimi vent’anni i conti abbiamo dovuti farli rispetto al travolgente industrialismo e globalismo cinese, coniugato con una spregiudicata strategia geo-politica. Poi è arrivata l’emergenza immigrazione, che ha diviso le opinioni pubbliche, anche di sinistra. Nel 2018 si è imposta all’attenzione la sedicenne Greta Thunberg, attivista svedese per lo sviluppo sostenibile e contro il cambiamento climatico, piena di buoni sentimenti, a tratti moralistica, ma oggettivamente incapace di andare alle radici di uno sconquasso di portata mondiale. E non solo a causa del problema ecologico. Mentre vince la mediazione istituzionale, i grandi problemi restano.
Il debito estero continua a gravare sui bilanci delle nazioni più povere. Nell’aprile 2021, i governi dei Paesi del G20 hanno deciso di prorogare per la durata di sei mesi la moratoria sul pagamento del debito estero a beneficio di 73 Paesi vulnerabili. La sostanza però è che i debiti non sono stati cancellati, ma sospesi, e dovranno essere onorati, tra il 2022 ed il 2024, aggiungendo gli interessi maturati nel frattempo.
Il numero di persone che vivono con meno di 5,50 dollari al giorno è rimasto praticamente invariato tra il 1990 e il 2015 passando da 3,5 a 3,4 miliardi. Ma non sono solo i Paesi più poveri ad aver mancato l’obiettivo di sradicare la povertà: tra il 1984 e il 2014 la povertà è aumentata in Paesi come Australia, Irlanda, Nuova Zelanda e Regno Unito. Nei Paesi Ocse un bambino su sette vive in condizioni di povertà reddituale e negli ultimi anni la povertà infantile è aumentata in due terzi dei Paesi Ocse.
Un recente rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo rileva che i Paesi ricchi per attutire gli effetti economici del Covid hanno speso 212 volte di più rispetto ai Paesi poveri per l’assistenza pro capite. A livello globale, sono stati investiti in politiche di protezione sociale 2.900 miliardi di dollari, ma solo 379 miliardi di dollari sono stati spesi dai Paesi in via di sviluppo. Mentre le Nazioni ad alto reddito hanno devoluto una media di 847 dollari pro capite di aiuti, i Paesi a medio reddito hanno speso in media solo 124 dollari pro capite. In quelli a basso reddito, l’importo assegnato alla protezione sociale totale pro capite non ha superato i 4 dollari. Nei 41 Paesi analizzati e sulla base dei dati disponibili, il rapporto evidenzia come l’80% delle persone che sarebbe sceso al di sotto della soglia di povertà calcolata in 1,90 dollari al giorno è sfuggita alla fame solo grazie a misure di assistenza sociale.
In questo quadro, i nuovi movimenti sono l’espressione della frantumazione ideologica del radicalismo di sinistra, oggi omologatosi all’interno di campagne di basso profilo e di scarso coinvolgimento popolare: Black Lives Matter, No Borders No Nations, No Tav, il movimento iconoclasta.
A vent’anni dai “fatti di Genova” i vecchi no-global sembrano come rattrappiti, piegati su se stessi, rendendo palese la loro incapacità strutturale, diremmo mentale, di affrontare – da sinistra – i problemi determinati dalla globalizzazione, a partire dalle proprie radici culturali.
A meno di non volere trasformare la sinistra in una confraternita di pie donne, dedite alle opere caritative, non si possono dimenticare le radici materialiste, industrialiste, internazionaliste, essenzialmente … globaliste, proprie della “sinistra storica” e confusamente assunte dall’odierna sinistra radicale.
Chi abbia letto il Marx autentico, non può non ricordare le sue pagine dedicate ad esaltare il benefico “sradicamento” socio-economico realizzato dal capitalismo nei confronti delle società tradizionali, la sua esaltazione dell’industrialismo, il suo disprezzo verso il “sottoproletariato”, oggi diremmo i reietti del mondo (“putrefazione passiva – scrive Marx – degli strati più bassi della vecchia società”).
Il ventennale del G8 di vent’anni fa, ben oltre facili e ripetitive ricostruzioni, invita piuttosto a porre confini reali e culturalmente fondanti sulla linea del confronto tra globalizzazione ed antiglobalizzazione.
Nella misura in cui la globalizzazione è estraniamento culturale, perdita del senso e del valore della politica, esasperato economicismo, è allora passando attraverso la volontà-capacità di un nuovo radicalismo culturale che si può sperare di riavviare il dibattito.
Gli “argomenti” non mancano: recupero delle identità nazionali, difesa delle tradizioni e delle tipicità locali, sviluppo organico delle economie, rifiuto dei processi di finanziarizzazione, volontà di coniugare valori etici e valori produttivi, ripresa del senso e delle ragioni della Politica. Sono “linee di vetta” che appartengono al patrimonio alto e comune della cultura europea e che parlano di libertà piuttosto che di “liberazione”, di giustizia piuttosto che di egalitarismo, di identità piuttosto che di cosmopolitismo.
Al di là di un antiglobalismo di maniera, solo attraverso una nuova consapevolezza culturale si può riequilibrare uno sviluppo oggettivamente disorganico ed intrinsecamente ingiusto. Il resto è demagogia, in grado – come avvenne vent’anni fa – di riempire le piazze, di rassicurare le “buone coscienze” dell’Occidente e di illudere certa sinistra, vecchia e nuova, nel sentirsi ancora rivoluzionaria. In realtà con scarsi risultati e senza prospettive. Se non quelle di evocare “nostalgicamente” i suoi storici fallimenti.
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