Un calo del 10,1% sul secondo semestre del 2020 e dell’11,7% su base annua: la contrazione del pil tedesco nell’annus horribilis della pandemia da Covid-19 non ha precedenti nella storia della Repubblica Federale, almeno a partire dal 1970, anno in cui è iniziata la regolare registrazione delle relative statistiche. Nel 2009 – giusto per avere un metro di paragone – ovvero al culmine della crisi economica innescata dalla bolla speculativa statunitense, il pil tedesco toccò il suo record negativo nel primo trimestre dell’anno, con un – 4,7%. Dato che oggi farebbe gridare allo scampato pericolo. Per un’economia votata all’esportazione manifatturiera il blocco della produzione prima e la contrazione dei consumi su scala mondiale poi hanno rappresentato un doppio colpo durissimo. Ad aprile, il momento più nero, le esportazioni hanno fatto segnare un calo di oltre il 30%: inevitabili ripercussioni a cascata sull’intero sistema economico tedesco.
A questi elementi negativi ha fatto da contraltare la buona risposta del sistema sanitario nazionale, fattore che ha consentito una ripresa delle attività produttive in tempi relativamente rapidi, dunque la ripartenza del sistema economico tedesco. Se alcuni elementi di criticità permangono – in particolare la contrazione della domanda internazionale e le difficoltà dei sistemi produttivi di alcuni Paesi (Italia compresa) inseriti nella catena industriale tedesca come subfornitori – è pur vero che i primi segnali sono incoraggianti, tanto da spingere il governo di Berlino a prevedere – data per stabile la situazione sanitaria – il ritorno del segno più entro ottobre, una crescita del pil del 5,2% nel 2021 e il recupero dei livelli di produzione pre-crisi entro il 2022. La locomotiva tedesca, dunque, rallenta ma non arresta la sua corsa.
Il quadro generale, tuttavia, è molto più sfaccettato di quanto possa apparire ad un primo sguardo. Se la pandemia ha fatto da detonatore per la crisi del pil tedesco – come in tutto il mondo, del resto – non mancano fattori di rischio indipendenti dall’emergenza Covid nel sistema economico-produttivo di Berlino, anche in comparti di punta come quello automobilistico. In questo caso, ad esempio, la dipendenza dalle esportazioni e i ritardi nel settore della mobilità elettrica e della guida autonoma rappresentano debolezze irrisolte, così come – allargando il quadro ad una visione più ampia – i ritardi nel settore dell’economia digitale.
Insomma, l’economia tedesca è certamente la più forte del Vecchio Continente, ma non mancano gli elementi di potenziale crisi. Così come il raggiungimento del primato continentale non è stato esente da costi, tanto sociali quanto politici.
I primi sono quelli pagati dai lavoratori tedeschi all’indomani dell’approvazione della riforma del mercato del lavoro – il piano Hartz entrato in vigore tra il 2003 ed il 2005 – che se da un lato ha ridotto la disoccupazione, dall’altro ha portato ad una crescita del precariato, tanto che oggi i lavoratori “marginali” – ovvero quelli a basso reddito costretti a passare da un minijob ad un altro, se non ad integrare i redditi da lavoro con i sostegni offerti dal sistema di protezione sociale – rappresentano una quota oscillante tra il 20 ed il 25% della forza lavoro tedesca.
I costi politici sono quelli di cui si è fatta carico negli ultimi mesi la cancelliera Angela Merkel – unitamente ai principali esponenti del sistema politico-economico tedesco – per consentire il salvataggio dei Paesi europei maggiormente colpiti dalla crisi e, in buona sostanza, della stessa Unione Europea. Per raggiungere questo risultato è stato necessario modificare radicalmente la visione politico-economica di Berlino. Con notevoli ricadute – inevitabilmente – per l’intera Unione Europea, Italia in primis.
Un sistema economico votato all’export non poteva e non può permettersi il collasso di Paesi che rappresentano vuoi il principale mercato di sbocco dei propri prodotti, vuoi la rete di fornitori di semilavorati e componentistica per le imprese tedesche. Di qui la necessità contingente di salvare il mercato comune e l’euro. Anche sacrificando quei principi ordoliberali – pareggio di bilancio, non intervento dello Stato nel capitale delle imprese, paura ossessiva dell’inflazione – che finora hanno ispirato la politica economica tedesca e, di conseguenza, quella della Ue. Più che una vittoria italiana e francese – e una conseguente sconfitta dei “frugali” capitanati dall’Olanda -, l’intesa in sede comunitaria su Mes sanitario senza condizioni (non proprio, ma questa è un’altra storia) e sul recovery fund è stata un’abile manovra tedesca per salvaguardare il proprio sistema economico-produttivo, manovra ben mascherata sotto la bandiera della solidarietà europea. Ben lo ha evidenziato sulle pagine di «Limes» Federico Petroni, secondo cui «Angela Merkel non si è convertita sulla via di Damasco. Ha agito in perfetta applicazione della strategia geopolitica tedesca. La quale impone di creare condizioni favorevoli per riversare nell’estero vicino il surplus produttivo della manifattura germanica. Il mercato comune e l’euro ne sono la declinazione tattica contemporanea. Da ciò discende l’imperativo di salvarli a tutti i costi».
Sulla base di queste considerazioni andrebbe ridimensionato – cassato del tutto, probabilmente – il trionfalismo di Giuseppi e dell’esecutivo giallo-fucsia italiano. Trionfalismo rilanciato ed amplificato da un sistema dell’informazione schiacciato acriticamente su posizioni filo-governative e filo-Ue. L’attenuazione del rigore nei confronti dell’Italia e degli altri Paesi mediterranei in difficoltà – prima ancora dell’annuncio di nuove linee di finanziamento a fondo perduto o basso costo (bilanciate però da un aumento dei contributi al bilancio comunitario, si badi) – è dunque, prima ancora che solidarietà comunitaria, presupposto necessario al salvataggio del sistema economico tedesco, in un’ottica strettamente nazionale che solo per combinazione di fattori coincide – almeno a grandi linee – con l’interesse a breve termine delle economie europee maggiormente colpite dalla crisi innescata dalla pandemia.
L’Italia, insomma, non può fallire perché rischierebbe di portare con sé la già traballante costruzione europea. E questo sì che danneggerebbe duramente l’economia tedesca. Considerato che la stabilità socio-economica è uno degli elementi fondanti del patto sociale non scritto su cui si fonda la Repubblica Federale si tratta di un rischio che nessuno, in Germania, è intenzionato a correre. Almeno per il momento. Perché a Roma una cosa dovrebbe essere chiara: a Berlino si lavora da tempo al “piano B”, ovvero al superamento del sistema euro per come è attualmente configurato, sia tramite la creazione di un “euro del nord”, sia tramite l’uscita dei Paesi economicamente più deboli. Quella concessa ora all’Italia è solo una tregua.
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