(3. QUALE SOVRANISMO?) PER RINASCERE, SI RIMETTANO AL CENTRO L’UOMO E IL LAVORO

(3. QUALE SOVRANISMO?) PER RINASCERE, SI RIMETTANO AL CENTRO L’UOMO E IL LAVORO

L’uomo, oltre l’individualismo

La lettura degli ultimi due articoli sul sovranismo ospitati su queste colonne è stata estremamente interessante. Al netto della reale possibilità di imbastire, nello sterile panorama culturale attuale, un costruttivo confronto speculativo sul tema, chi scrive crede sia indispensabile cominciare a focalizzare dei punti fermi. Porre l’accento su delle certezze che evitino il perdurare di letture del fenomeno superficiali o disoneste intellettualmente.

Ergo, assodato che populismo e sovranismo non sono sinonimi come ci suggerisce Benedetti e che se di sovranismo si vuole parlare, lo si deve fare necessariamente all’interno di una dinamica statale come sottolinea Pinasco, è giocoforza indispensabile ripensare anche l’uomo “sovranista”. Ovvero, rendersi conto che i danni del globalismo, o del neoliberismo se piace di più, hanno reso impossibile operare politicamente e culturalmente sulla società contemporanea. Quest’ultima ha perso la sua struttura organica e la sua capacità di discernimento, insomma, non esiste più in quanto tale. Se è vero che il caso italiano può risultare meno compromesso a riguardo per via della sua, diciamo così, mediterraneità, non si può negare che ampi strati della nostra società si siano “appartati” in una clausura sociale che di fatto li pone al di fuori della Nazione. Strati della società che solo apparentemente possono avvicinarsi al concetto ottocentesco di classe, ma che in realtà sono il risultato più appariscente dell’individualismo neo liberale.

Gli ultimi trent’anni ci hanno catapultato antropologicamente dal cosiddetto homo reciprocans, costituito da una sostanziale capacità di interazione disinteressata con gli altri individui, all’homo oeconomicus. Un individuo votato e legato a un categorico mantra sociale ben definito: “io posso”. Un ordine interiore che assume, come ci suggeriscono i sociologi Chicchi e Simone, le caratteristiche di un dovere, cioè di un obbligo morale ben diverso da quello che contraddistingue, per esempio, l’esistenza del typus melancholicus vincolata dall’Io devo, che lo impegna a essere per l’Altro e a contribuire all’ordine e all’armonia nel proprio ambito sociale”. Un uomo, dunque, spettacolarizzato e che lega la considerazione di se stesso ai traguardi materiali raggiunti; avviluppato in una spirale di stampo “protestante” che tende a distruggere gli ultimi riverberi della presenza idealistica e spiritualista nella sua esistenza.

Veri e propri cortocircuiti di iper-responsabilizzazione personale rendono l’uomo contemporaneo insoddisfatto e depresso e conseguentemente ricattato dal bisogno del consumo, unica valvola di sfogo all’insoddisfazione personale. Un cerchio perfetto in cui l’individuo in questione, dimentico della sua natura sociale, si affanna in una corsa inconcludente, funzionale, solo, al mantenimento dello status quo neoliberale.

Il lavoro soggetto dell’economia

Prima ancora che politico ed economico, il problema contro cui si scontra il sovranismo è, dunque, di natura psichica e personalissima. Di conseguenza, lo sforzo per ristabilire le giuste priorità societarie, appare oggi titanico. L’atomizzazione della società rende tutto più difficile e l’unico modo per invertire la triste tendenza appena descritta è quello di riportare i singoli in un contesto di responsabilizzazione societaria in cui l’un l’altro ci si senta parte integrante di un meccanismo più grande e superiore. Filosoficamente parlando, il ritorno allo spiritualismo novecentesco e più prosaicamente la riscoperta del lavoro come strumento di costruzione della società. Del resto, cosa continua ad accomunare gli atomi impazziti di questa società, qual é, insomma, l’unico strumento su cui si può agire in una società disorganizzata? Il Lavoro. Solo ed esclusivamente il lavoro. Il neoliberismo per distruggere la nostra società ha per prima cosa sgretolato il concetto di lavoro. Non più un dovere/diritto ma una concessione quasi messianica, che si deve conquistare singolarmente; ebbene, si deve combattere sullo stesso piano, con la stessa impostazione rivoluzionaria, ma evidentemente in direzione “ostinata e contraria”.

Si deve, quindi, modificare il rapporto tra capitale e lavoro. Liberando infine i singoli, e conseguentemente la società, dall’effimero miraggio della società dei consumi e dagli egoismi più o meno di parte. Giuseppe Mazzini nel 1860 affermava:

 Il lavoro associato, il riparto dei frutti del lavoro, ossia del ricavato della vendita dei prodotti, tra i lavoranti in proporzione del lavoro compiuto e del valore di quel lavoro: è questo il futuro sociale. In questo sta il segreto della vostra emancipazione. Foste schiavi un tempo; poi servi; poi salariati; sarete fra non molto, purché  lo vogliate, liberi produttori e fratelli nell’associazione.

Per tornare a parlare in modo sovrano di confini, politica estera, economia, insomma, per tornare a parlare di sovranità, si deve obbligatoriamente ricostruire un tessuto sociale organico che marci verso un obbiettivo comune. Conditio sine qua non, l’equiparazione del lavoro al capitale, come affermò Ugo Spirito, seppur in un’epoca lontana, nella celebre relazione del 1932 sulla “corporazione proprietaria”. Sparite le corporazioni, le ragioni ideali di quella proposta rimangono quanto mai attuali:

Il capitale passi dagli azionisti ai lavoratori, i quali diventano proprietari della corporazione per la parte loro spettante in conformità dei particolari gradi gerarchici: il che importa che i corporati non si sentano stretti, come nel sindacato, da una necessità di difesa che è ai margini della vita economica e trascende nel politicantismo, ma siano uniti dal vincolo della comproprietà, attraverso il quale la corporazione acquista concretezza di organismo e piena consapevolezza del proprio compito economico-politico. Il capitalista non è più estraneo e non ignora come si amministra la sua proprietà, ma l’amministra egli stesso coincidendo con la figura del lavoratore: e il lavoratore, d’altra parte, viene ad essere immediatamente interessato al rendimento del suo lavoro, in quanto esso si converte in aumento di reddito del suo capitale. La figura dell’imprenditore, poi, non si presenta più ai margini del capitale e del lavoro, ma passa, nella stessa identità dei termini e quindi nello stesso piano degli altri corporati, al vertice della gerarchia corporativa.

Chi raccoglierà la sfida? Chi si sobbarcherà l’onere di ricostruire la società nazionale? Chi oserà sfidare la deriva globalista riportando l’uomo in un contesto sociale e sovrano? Sicuramente nessuno dei populisti travestiti da sovranisti.

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