160 DI UNITÀ. RITORNARE ALLA NAZIONE,UNA NECESSITÀ PRATICA

160 DI UNITÀ. RITORNARE ALLA NAZIONE,UNA NECESSITÀ PRATICA

Di Stelio Fergola

Sovente l’idea di nazionalismo o patriottismo viene associata a una visione ideologica, animata da moventi spirituali (spesso stigmatizzati) ma lontana dalla realtà quotidiana delle persone.

Per metterla in termini semplici, “con la Nazione” non si pagano le bollette, non si migliora il proprio benessere economico né si esce da crisi materiali gravissime come quella che stiamo vivendo, non si organizza pacificamente il proprio quartiere e non si conduce un’esistenza serena. Per renderla sinteticamente, “la Nazione” è qualcosa di inutile, anzi dannoso e generatore di guerre con altre “Nazioni”.

Sotto certi aspetti, tali deduzioni potrebbero avere un fondo di verità, ma se andiamo a vedere il profondo risultato della storia e dell’evoluzione della società italiane, l’analisi finale può divergere notevolmente.

L’Italia come Nazione esiste da circa un migliaio di anni. La lingua che nel XV secolo sarebbe divenuta quella ufficiale (quindi insegnata a chi poteva essere istruito) di tutti gli Stati che componevano la penisola, nasce infatti nei suoi primordi già nel X secolo in aree dell’attuale Campania, successivamente si sviluppa prima attraverso la poetica siciliana e infine in terra toscana, sublimata definitivamente dal padre nobile Dante Alighieri. Alcune delle numerose evoluzioni successive della cultura nazionale sarebbero state rappresentate dalle Repubbliche Marinare, dal Rinascimento, dalla pittura seicentesca, dalla tradizione lirica e teatrale, o banalmente da usi e costumi estremamente tradizionali come il presepe.

L’Italia come Stato unitario nasce, come è noto, nel 1861. Fu in quel frangente che, secondo lo storico Roberto Vivarelli, si contrapposero due idee della Nazione: quella romantica e ideologica di Giuseppe Mazzini e l’altra, “pragmatica” di Camillo Benso conte di Cavour.[1]

Una ricostruzione condivisa da vari studiosi, su tutti Sergio Romano, secondo cui:

Il disegno di Cavour era pragmatico, liberale e consapevole delle molte debolezze storiche e civili della società italiana. Il disegno di Mazzini era idealistico, spirituale e fondato sul concetto potenzialmente pericoloso di una grandezza preesistente che attendeva di essere risvegliata e restaurata. Gli eredi dell’uomo che maggiormente contribuì alla creazione dello Stato furono minoranza. Gli eredi di Mazzini furono molto più numerosi e contribuirono a fare dell’ideale mazziniano, in ultima analisi, la base di uno Stato nazionalista. [2]

Sebbene la contrapposizione sia lontanissima da ogni interpretazione di massa dell’Italia attuale (perfino l’idea di Cavour oggi verrebbe recepita come sognatrice, idealistica e distaccata da qualsiasi problema quotidiano), essa ci è utile proprio per proporre una riflessione sulla “utilità” della Nazione stessa.

L’Italia unita divide la sua storia, sostanzialmente, in tre fasi. La prima, liberale e monarchica, esistita dal 1861 all’ottobre del 1922. La seconda, fascista e monarchica, dal 1922 al 1943. La terza, ovvero l’attuale forma repubblicana e democratica, dal 1945 ai giorni nostri.[3]

Pur nelle differenze incontestabili e spesso polemiche tra i primi due periodi  – liberale e fascista – si registra in essi una continuità nella ricerca, nel progresso e nella costruzione della Nazione. In questo articolo ometteremo volutamente i difetti di entrambi, perché riteniamo davvero stupido concentrarvisi: i limiti e gli errori, nell’umana azione in generale, prima ancora che in politica, sono inevitabili. Molto più importante è badare ai bilanci complessivi – su questo tema positivi – che si sono generati, e soprattutto agli approcci spirituali e culturali che li hanno animati.

Comunque, l’Italia liberale, nonostante una visione spesso confusa di come perseguire il disegno di cui sopra, si interessa fin da subito non solo di “fare gli italiani” come da nota – e di dubbia parternità – citazione D’Azegliana, ma anche di fare grande l’Italia, di proporne una visione di lungo termine, di esercitare un ruolo nella storia e nel mondo. Vi si impegna a fondo, con l’alfabetizzazione di massa, con la costruzione di infrastrutture prima di allora esistenti nel solo Nord Ovest (come le ferrovie), con la promozione dell’ideale nazionale e patriottico in libri di narrativa fortemente sospinti culturalmente come Cuore di Edmondo De Amicis, che raccontava le vicissitudini di alcuni scolari elementari di Torino, provenienti da regioni diverse. Quell’Italia produce anche espressioni di identità più spontanee, come Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, la favola italiana per eccellenza, le cui ambientazioni, dinamiche, e disagi sociali sono realmente qualcosa in cui è difficile trovare un italiano che, a Lampedusa come a Trento, non possa identificarsi.

L’Italia liberale progetta crescita e promozione anche in politica estera, già dalla politica coloniale iniziata da Francesco Crispi, alla firma della Triplice Alleanza, alla conquista della Libia nel 1911, al lavoro incessante del marchese Antonino di Sangiuliano per riuscire ad ottenere l’obiettivo della riscossione delle terre irredente già da prima di quella Grande Guerra esperienza capillare di un popolo il quale, proprio in quei quattro anni decisivi, diviene moderno e compatto e ottiene la sua riscossa.

L’Italia successiva – quella fascista – entra in gioco prima gradualmente, con i governi Mussolini “costituzionali” successivi all’ottobre 1922, poi con la fase autoritaria del fascismo stesso, che durerà dal 1925 fino al 1943.

È un’Italia fortemente polemica nei riguardi della progenitrice liberale, ma che segue la stessa direttrice: la crescita, la maturazione, la gloria del popolo italiano, la necessità di fargli esercitare un ruolo nel mondo. Ed è su questi temi che vanta i suoi successi, non c’è spazio per altro. Non esistono mezze misure né complessi su quanto le scelte possano essere positive o negative, esiste soltanto la voglia di agire, con riflessione e con ambizione.

Negli anni del fascismo l’Italia sublima la Vittoria del 1918, concretizza la tradizionale idea economica “mista” che il Paese già aveva espresso nei decenni precedenti e si configura come un gigante di interventismo statale contemperato da una libera iniziativa privata, anche di dimensioni ragguardevoli in certi casi (Fiat). Costruisce un modello di welfare, composto da istituzioni quali l’INPS, dalla stessa IRI e da vari di progetti di bonifica e riqualificazione che vengono presi a modello anche da Nazioni culturalmente lontanissime, quali gli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt, che ad essi si ispirano per la fondazione di società federali come la nota Tennesse Valley Authorithy (1933) nata allo scopo di rilanciare le infrastrutture americane durante la Grande Depressione. Espande la propria influenza politica, la quale, pur essendo certamente lontana dal peso statunitense o britannico, se la gioca – almeno fino alla disastrosa guerra – con quelle francese, tedesca ma – sempre fino alla guerra – anche sovietica. Nel 1938 l’Italia recita la parte del garante della pace europea con la Conferenza di Monaco, tramite la quale riesce a ritardare il conflitto di un anno.

E qui arriviamo al punto. Dopo la seconda guerra mondiale e il disastro di un intervento forse inevitabile, ma imprudente e drammatico negli esiti, dopo il trauma indelebile dell’8 settembre e la guerra civile, l’Italia che viene fuori dalle macerie del 1945 è una Nazione diversa, come ricorda anche lo storico Emilio Gentile:


In realtà, la disfatta militare, la caduta del regime fascista, il crollo dello Stato nazionale non distrussero soltanto le ambizioni di potenza e di grandezza, ma trascinarono nella rovina anche la fragile identità nazionale che, pur con tutti i suoi limiti, ambizioni e illusioni, gli italiani avevano acquistato in otto decenni di vita unitaria.[4]

Palesemente afflitta e depressa a causa della sconfitta, ma non solo. È un’Italia che non si rimette in gioco allo stesso modo in cui lo avevano fatto le due Italie precedenti. È un’Italia che rinuncia al rafforzamento della propria unità e – non secondariamente – alla voglia di esportarla, di proporla, di esercitarla. La parola “patria” è nominata una sola volta nella Costituzione del 1948, e che le parole siano sostanza lo dimostrano i primi anni della Repubblica, in cui il perseguimento dell’interesse nazionale ancora sopravvive, ma nell’azione energica di alcuni italiani di valore e in grandi propositi sostanzialmente isolati dalla cultura dominante che si sarebbe imposta dagli anni Sessanta in poi.

Nel frattempo i risultati continuano ad arrivare: il Paese diviene una delle prime potenze economiche mondiali nel giro di un paio di decenni, grazie all’azione di Enrico Mattei che riesce a costruire anche un’alternativa industriale che la rende, pur non essendo produttrice, parzialmente indipendente dal punto di vista energetico: l’ENI, ancora oggi e nonostante il declino, è una delle aziende più importanti del globo. Un marchio che, a dispetto dei giudizi critici di chi riteneva l’Italia troppo debole per competere con i giganti anglosassoni, dimostra quanto sia importante e proficuo cercare di ottenere il massimo possibile, senza produrre eccessive riserve mentali.

Terminata la “spinta” dell’educazione che le “due Italie” precedenti a quella repubblicana avevano impresso, le generazioni di italiani della Repubblica si formano tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. La classe dirigente, tuttavia, resta ancora la stessa, anziana e “tradizionale” fino agli anni Ottanta.

Il decorso era stato azzoppato fin dall’inizio: se De Gasperi tenta di salvare le colonie, è meno assistito di prima. Se Mattei cerca di sfidare le Sette Sorelle, non c’è tutto il Paese compattamente a sostenerlo, ma solo la cosiddetta corrente “neoatlantica” (non è un caso, peraltro, che il fondatore dell’ENI fosse divenuto noto per il modo in cui aveva corrotto gran parte della stampa nazionale, allo scopo di non ricevere troppe critiche per il suo operato).

Comunque, sebbene la Nazione non abbia più la guida di una reale pedagogia di Stato e della cultura dominante, i risultati, dopo una crisi inflazionistica piuttosto forte negli anni Settanta, proseguono: la Nazione diviene la quinta e per alcuni addirittura quarta potenza economica mondiale, tenta con qualche successo di mantenere una politica mediterranea di alto profilo, sotto la guida di Bettino Craxi resiste addirittura alle ingerenze statunitensi a Sigonella alla fine di ottobre del 1985 per la nota questione della “Achille Lauro”.

Ma le generazioni nate e cresciute nelle “due italie” precedenti non ci sono più. Sono anziane, e stanno per cedere il passo. La futura classe dirigente, rappresentativa degli italiani post-bellici, nasce negli anni Sessanta. Neanche la scuola e l’università sono più le stesse, dopo le rivoluzioni del Sessantotto.

Sarà un caso, ma i risultati cominciano a scarseggiare. Dagli anni Novanta in poi l’Italia smette di essere quella macchina da guerra economica che era stata fino a poco prima. A livello politico, il poco che si era riuscito a costruire nei decenni post-bellici viene spazzato via dalla svendita del tessuto industriale del Paese, dalla sottomissione inerme a Bruxelles, a Maastricht, dalla perdita di peso anche nel bacino Mediterraneo dove, dal 2011, lo stivale neanche più padrone in Libia. Una Turchia qualsiasi, Stato dotato di mezzi ben inferiori ai nostri, ha oggi un peso decisamente maggiore sulla scena internazionale.

Nello stesso periodo quel poco di orgoglio nazionale che era rimasto, è svanito del tutto. Man mano che gli italiani hanno coltivato sempre meno sogni e ambizioni, man mano che ogni spirito di iniziativa “patriottica” veniva visto sempre più con maggiore sospetto o indifferenza, il Paese si arenava nell’inerzia, anzitutto del suo popolo.

Ne é testimone la protesta grillina degli ultimi 10 anni: perché sì, c’è una ragione sintetica, ma abbastanza precisa, che spiega il fallimento del Movimento 5 Stelle. Una ragione che è la stessa anche di tutti i fallimenti precedenti, e che sarà la medesima anche per i futuri: l’assenza della Nazione. E qui giungiamo al punto di comprendere che non c’è questione più pragmatica di questa, l’idealismo è sicuramente una componente fondamentale ma si riflette anche nel modo in cui si sviluppano eventuali percorsi sociali ed economici.

Con la Nazione “non si mangia”? In realtà, se guardiamo alla storia, sì. E il dilemma tra il pragmatismo di Cavour e l’idealismo di Mazzini si scioglie come neve al sole, perché probabilmente avevano ragione entrambi.

L’idealismo, lo spirito, il senso di compattezza e comunità sono infatti elementi fondamentali per qualsiasi società prospera. E la progressiva decadenza – anche in termini di risultati – di questa Nazione dimostra quanto siano stati influenti prima di perire – decennio dopo decennio – sotto la mortifera influenza della “terza Italia” repubblicana. Quella dove la patria non è più un imperativo, la nazione è addirittura qualcosa di pericoloso, dove l’ambizione, i progetti, la voglia di vincere e di lasciare un segno positivo nel mondo (e qui rinnoviamo l’intenzione di non elencare i contro: continuiamo a ritenerlo imbecille) sono fattori da stigmatizzare e infangare, magari con l’abusato termine di “fascismo”.

Ma sono tremendamente reali, terribilmente pragmatici. Senza la Nazione, senza la comunità, non c’è alcun futuro. E qualsiasi visione socio-economica si abbia (liberista, statalista, socialdemocratica, corporativista o addirittura comunista), è destinata ad essere uno specchietto per le allodole senza alcuna costruzione pratica. Poi, è altrettanto palese che la morte della Nazione non sia l’unica ragione della decadenza, e non dovrebbe neanche essere necessario precisarlo. Ma è francamente difficile pensare che non sia la più importante, la più intima.

Perché qualsiasi società si costruisca, farlo in nome della Nazione conferisce una marcia in più irrinunciabile. Perché con la Nazione, per quanto possa suonare strano, alla fine si pagano anche le bollette.


[1]    R. Vivarelli, Italia 1861, il Mulino, 2013

[2]    S. Romano, La Nazione ideale di Mazzini e quella pragmatica di Cavour, in Corriere della Sera, 19 febbraio 2013

[3]    Per semplicità, non includiamo la guerra civile intercorsa tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945 e la fase che porta prima al referendum istituzionale del giugno del 1946, poi ai lavori dell’assemblea costituente, infine all’entrata in vigore dell’attuale Costituzione nel gennaio del 1948.

[4]    E. Gentile, La Grande Italia. Il mito della Nazione nel XX secolo, Laterza, 2006

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