di Mario Bozzi Sentieri
Il modello della concertazione ha attraversato, in Italia, fasi diverse. Dalle prime esperienze, sancite con la “svolta dell’Eur” (febbraio 1978), allorquando Cgil-Cisl-Uil avvallarono la cosiddetta politica dei sacrifici, al mancato accordo unitario sulla sterilizzazione parziale della scala mobile (14 febbraio 1984), fino alle pratiche concertative, volte a governare consensualmente le trasformazioni imposte dall’UE, si può dire che, a partire dagli Anni Novanta, la storia delle relazioni sindacali è stata punteggiata da numerosi accordi finalizzati a definire procedure e metodi relativi alla concertazione. Un continuo stop and go, sulla linea di accordi specifici (costo del lavoro, scala mobile, politica dei redditi, blocco della contrattazione articolata, pensioni, mercato del lavoro, welfare) che non sono però mai approdati a definire chiare ed organiche forme di concertazione sociale, in grado di affrontare “strutturalmente” il rapporto tra le parti sociali ed il Governo. Con il risultato, a partire dal Governo Monti per poi arrivare a quello presieduto da Mario Draghi, di favorire forme tecnocratiche, ben lontane dalla concertazione sociale. In questo ambito oltre la mera consultazione (secondo lo schema ascolto/registrazione delle proposte) non si è andati.
Il primo vertice tra il nuovo Governo, presieduto da Giorgia Meloni, e le diverse sigle sindacali, convocate a Palazzo Chigi, mercoledì 9 novembre, sembra essersi mosso su un piano diverso. A partire dal riconoscimento, non formale, del ruolo dei corpi intermedi, nel segno di una politica dell’ascolto e della condivisione. “Possiamo decidere di affrontare questa situazione in una logica di contrapposizione – ha specificato Giorgia Meloni – oppure decidere di farlo in una logica di collaborazione. Il mio personale approccio sarà di lealtà e di trasparenza, e sono sicura di poter trovare lo stesso atteggiamento anche dall’altra parte di questo tavolo”.
Su questa strada è arrivato più di un messaggio di apertura da parte dei segretari confederali, che hanno apprezzato l’impegno che la premier Meloni ha assunto di consolidare e valorizzare il dialogo, l’idea di condividere e concertare una strategia che guardi al medio-lungo periodo, il superamento di posizioni preconcette.
Paolo Capone (Ugl) ha sottolineato come si tratti di un importante “cambio di passo”. Luigi Sbarra (Cisl) è arrivato ad ipotizzare un “cantiere di corresponsabilità”. Per passare dalle parole ai fatti bisogna però andare oltre le vecchie (ed estemporanee) politiche della concertazione, guardando ad un riformismo sociale post ideologico, in grado di farsi carico della crisi in atto, ma contemporaneamente impegnato a “mobilitare” tutte le risorse disponibili.
E’ quanto – in estrema sintesi – ha invitato a fare Pietro Ichino, intervenendo, da “battitore libero” qual è, in apertura al Consiglio Nazionale dell’Ugl, convocato il 10 novembre, il giorno seguente l’incontro tra Governo e Sindacati. Facendo riferimento alle idee contenute nel suo libro “Intelligenza del lavoro”, Ichino ha evidenziato la necessità di superare la tipologia di relazioni industriali improntate ad una netta contrapposizione fra datori di lavoro e rappresentanza dei lavoratori, puntando su un sindacato nuovo che sappia stipulare un patto positivo con le aziende, non da vedere come “nemiche”, ma con le quali, una volta appurata la loro affidabilità, capacità e rispetto delle regole, dare vita ad una scommessa comune per un piano industriale all’insegna della produttività, conveniente ad entrambe le parti, nel segno, poi, di una corretta distribuzione dei frutti a scommessa vinta. Parole che non possono non rimandare alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese ed agli utili aziendali, nelle varie sfumature di questa formula.
Su questo piano – aggiungiamo noi – spostare la contrattazione dal livello nazionale alla dimensione aziendale e territoriale, grazie anche alla detassazione del salario di produttività, vuole dire passare da un approccio conflittuale o “neutrale” ad una prospettiva partecipativa, in grado di favorire, sui luoghi di lavoro, la condivisione degli obiettivi e dei risultati.
E’ un modo di guardare all’oggi, alle emergenze in atto, ma con lo sguardo rivolto già al dopo-crisi, al rilancio pieno del nostro sistema produttivo, alla costruzione di una nuova, più matura, “concertazione” tra le parti sociali ed il Governo nella prospettiva di autentici processi di modernizzazione nazionale.
Aldilà dei ruoli specifici su questo piano si gioca la sfida del cambiamento. Sfida “di metodo” (per dare piena rappresentanza e voce ai corpi intermedi) e “di contenuti” (per affrontare le tante crisi “strutturali” del nostro Paese). Le aperture del Governo e la disponibilità dei Sindacati sono passi importanti. Ma oltre la concertazione c’è di più: la via partecipativa (bene identificata dall’art. 46 della Costituzione, ancora inapplicato) che sappia andare oltre le emergenze, puntando ad una concreta integrazione sociale e politica delle forze sociali. Solo allora la concertazione avrà un senso compiuto.
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