Di Mario Bozzi Sentieri
La tecnica è sempre la stessa: attribuire all’avversario “di destra” idee ed indirizzi programmatici che non gli appartengono. Ora tocca alla concertazione. Perentorio quanto scrive Roberto Mania, sulla newsletter de “il Mulino” (“La concertazione non è cosa di destra”, n. 37, 24 luglio 2023) un tempo paludata rivista riformista: “Il governo Meloni ha avviato diversi tavoli di confronto, in particolare con i sindacati (sulla delega fiscale, sugli aggiustamenti previdenziali, sul mercato del lavoro), ma nessuno approderà ad uno scambio politico. Perché finirebbe per attribuire agli attori sociali un ruolo nel processo decisionale. Questo non fa parte della cultura della destra che crede nell’assoluto primato della politica, fino ad alimentarla anche con decisioni simboliche”.
Nessuno possibilità – secondo Mania – per mediazioni ed intermediazioni. Perfino l’intervento di Giorgia Meloni all’ultimo congresso della Cgil non sembra lasciare spazi aperti sul fronte del dialogo sociale: alla destra – per principio – non piace il dialogo, perché incrina la relazione diretta con gli elettori ed è d’intralcio al “paternalismo sociale”.
Meglio evocare nostalgicamente – come fa il collaboratore de “il Mulino” – l’anniversario del trentennale della prima concertazione, quella del 1993 (presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi). L’Italia dell’epoca era, in realtà, ben diversa da quella attuale: il vecchio modello d’industria pubblica era al tramonto, la lira aveva rischiato il collasso, le risorse valutarie della Banca d’Italia erano ai minimi termini. In gioco c’era la tenuta dei conti dello Stato, su cui si intervenne attraverso una rigorosa politica del bilancio, una politica dei redditi e la politica monetaria, ancora in mano all’Istituto Centrale. La concertazione, attraverso l’accordo tra governo e parti sociali, garantì la necessaria stabilizzazione “di sistema”.
Oggi il contesto è oggettivamente diverso. Il quadro europeo e la moneta unica hanno ridisegnato i confini finanziari del nostro Paese. Le percentuali del Pil vedono l’Italia ai vertici dell’Unione Europea. Il tema del momento non è fare passare manovre draconiane, ma utilizzare al meglio le risorse del Pnrr.
Ciò evidentemente non esclude politiche di “integrazione sociale” in grado di coinvolgere il mondo del lavoro, avendo però ben presenti le trasformazioni socio-economiche e tecnologiche avvenute negli ultimi trent’anni e la conseguente necessità di attivare nuovi processi di partecipazione sociale, capaci di mobilitare competenze, volontà produttive, forme di cogestione. Qui la destra può e deve giocare la sua partita.
La stessa Giorgia Meloni, in uno dei suoi primi atti politici a ridosso delle elezioni del settembre 2022, aveva peraltro riconosciuto l’importanza non generica dei corpi sociali, dichiarando in occasione della visita, a Milano, al Villaggio della Coldiretti: ”Noi non intendiamo fare tutto da soli. Io credo nei corpi intermedi, nella serietà di chi alcune materie le vive ogni giorno. La politica deve ascoltare e decidere, ma deve anche avere l’umiltà di chiedere a chi le questioni le vive nel proprio quotidiano quali possano essere le soluzioni migliori”.
Recentemente Tommaso Foti, capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, in un’intervista a “Il Tempo”, ha riconosciuto due meriti alle iniziative finalizzate a favorire l’entrata dei lavoratori nella “vita” delle imprese: “il primo di dare finalmente attuazione all’articolo 46 della Costituzione che da 75 anni non è mai stato attuato. In secondo luogo perché questa proposta di legge avvicina quel tipo di mondo del lavoro alla nostra concezione politica del lavoro, ma che ha anche radici in una concezione cristiana e solidale, vicina anche alla dottrina sociale della Chiesa”. In sintesi, ha specificato Foti: “La proposta ha il merito di offrire un modello in cui tra sindacato e tra lavoratore datore di lavoro s’instauri una forma di collaborazione, cooperazione lontana dalla visione arcaica e poco realistica dello scontro tra ‘padrone’ e lavoratore”.
Niente di nuovo – sia chiaro – rispetto al patrimonio culturale della “destra all’italiana”, da sempre impegnata a superare la lotta di classe, ad affermare l’inclusione sociale e nazionale, a valorizzare il ruolo dei corpi intermedi. Solo chi ignora la complessità di questo “patrimonio” può arrivare a scrivere che “la concertazione non è cosa di destra”.
Agli albori della prima destra di governo, Giano Accame notava (La Destra Sociale, 1996): “La destra può e deve essere sociale, così come la sinistra può e deve essere nazionale in una democrazia dell’alternanza, ove l’avvicendarsi tra governo ed opposizione non provochi delle lacerazioni drammatiche, destabilizzanti”.
Forte di una storica consapevolezza sociale, di una costante attenzione verso il “Paese reale” (socialmente rappresentato dai corpi intermedi), di una visione partecipativa (bene sintetizzata nell’inattuato art. 46 della Costituzione) l’attuale destra di governo ha gli “strumenti” culturali e programmatici per farsi carico delle sfide della “nuova concertazione”. Senza schematismi ideologici. Soprattutto senza nulla concedere ad avversari in malafede.
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