di Francesco Carlesi
Tanti grandi pensatori del passato hanno ammonito che «non è un buon economista chi è solo economista», intendendo con questa frase che l’economia può essere compresa solo con uno sforzo profondo e multidisciplinare. Molto spesso ci si abbandona a visioni “naturalistiche” dei processi economici che portano a vedere come inevitabili alcuni provvedimenti in direzione di austerità e dominio dei mercati finanziari, dimenticando che nessuna decisione è “neutra” e che siamo sempre di fronte a qualcosa creato e “direzionato” dagli uomini in base a precisi valori di riferimento. Dimenticando che siamo di fronte a una scienza sociale che può creare sviluppo solo se innervata da una visione etica, come scrisse Gaetano Rasi presidente dell’Istituto di Studi Corporativi, simbolo della Destra sociale del dopoguerra al fianco di Giano Accame e del sindacalismo nazionale della Cisnal. In questo preciso quadro dobbiamo collocare il libro SocialEconomy (Edizioni Sindacali, Roma 2023, pp. 67, prefazione di Carlo Buttaroni) del Segretario generale dell’Unione Generale del Lavoro Francesco Paolo Capone, il quale si è distinto negli ultimi anni per un deciso recupero della battaglia per la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e di una serie di temi economici e sociali che costituiscono il cuore del volume. Un libro che si inserisce nell’incessante impegno culturale delle Edizioni Sindacali, le quali hanno pubblicato autori come Alain De Benoist e Rosario Faraci con diversi altri nomi di livello in cantiere (da Danilo Breschi a Guillaume Travers). Coniugare lavoro e cultura, d’altronde, fu la missione di un imprenditore come Adriano Olivetti, nella cui azienda (oggi solo un museo purtroppo) proprio l’Ugl tenne poco tempo fa un’importante conferenza sui temi dell’industria e delle future “transizioni” che coinvolgeranno il mondo del lavoro.
SocialEconomy parte con un’analisi del passaggio dal sistema di produzione di massa “keynesiano-taylorista” a quello neo-liberale che si sta affermando negli ultimi decenni, con l’economia che si distacca sempre più da una visione comunitaria come ha descritto in maniera puntuale Travers nei suoi saggi. I mercati finanziari, come dimostrano alcune crisi industriali italiane, stanno diventando sempre più egemoni quasi inverando la frase di Accame «il potere del denaro svuota le democrazie». Partendo da un critica di alcune derive legate proprio a queste visioni “mercatiste”, come le ha definite Giulio Tremonti, Capone riporta le analisi di Luciano Gallino (Il Lavoro non è una merce. Contro la flessibilità) per riaffermare un’idea di lavoro che sia crescita, maturazione e partecipazione. In questo percorso l’autore indica alcuni elementi centrali, tra cui: la necessità del rafforzamento dei diritti dei lavoratori; il contrasto al declino demografico; misure che favoriscano le assunzioni dei giovani, aggiustando in primis il tasso di disoccupazione nella fascia 15-24 che è al 23,7% (Rapporto Censis-Ugl); riforme coraggiose del sistema fiscale e di quello pensionistico; interventi sul piano dei salari che sempre meno garantiscono un’esistenza dignitosa a singoli e famiglie per finire con l’applicazione dell’articolo 46 sulla partecipazione, che può essere una valida strada verso la promozione della maturazione e della consapevolezza dei singoli in luogo di visioni meramente assistenziali. Su quest’ultimo aspetto, il Segretario riporta gli esempi virtuosi delle imprese “rigenerate”, cioè aziende in crisi salvate dai propri dipendenti tramite la liquidazione o i propri risparmi, trasformandole in cooperative (come nel caso del Birrificio “Messina”) e salvandole dalla chiusura. Il cooperativismo fu uno dei cardini del pensiero sociale di Giuseppe Mazzini, alfiere di una visione interclassista e patriottica in cui si ricordava l’importanza dei doveri al fianco della sacrosanta battaglia operaia per i diritti sociali.
Capone riporta poi alcuni esempi europei di partecipazione, elencando le diverse forme in cui questa può vedere la luce: dalla partecipazione agli utili o l’azionariato fino a forme di consultazione o vera e propria cogestione. A seconda dei casi e delle caratteristiche delle aziende, si può scegliere quale di queste strade intraprendere, sfruttando possibilmente anche l’idea suggestiva del “contratto di comunità” su cui si sofferma il Segretario: contratti mirati a coinvolgere oltre alla proprietà e ai lavoratori «anche l’ente locale sul quale lo stabilimento di produzione insiste» (p. 40). Da ultimo, sembra attinente menzionare l’appoggio fornito da Capone e dall’Ugl al progetto di legge sulla partecipazione dell’Istituto «Stato e Partecipazione» (stilato da esperti dell’Istituto stesso, sindacalisti Ugl come Guarente, Passera e Rivabella fino a tecnici come Maurizio Castro) pubblicato sul primo numero della Rivista Partecipazione. Un progetto incentrato sull’idea di partecipazione strategica dei lavoratori, perché in un contesto di cambiamenti digitali, economia della conoscenza e riscoperta delle filiere produttive interne si potrà avere proprio nella valorizzazione e nel coinvolgimento dei singoli dipendenti, in ottica di comunità e promozione delle competenze, un aspetto fondamentale per aumentare la forza, la coesione e la competitività delle imprese. Si tratta di un tema che in Europa è stato storicamente proprio delle socialdemocrazie ma che in Italia, caso del tutto particolare, è andato a destra con le proposte di legge del Movimento Sociale, gli approfondimenti di intellettuali e centri studi fino alla già menzionata Cisnal di Landi, Roberti, Brocchi e Laghi. Ultimamente, una proposta della Cisl, che riprende in mano il filone della Dottrina sociale della Chiesa e di uomini come Toniolo e Fanfani, sembra poter ravvivare questo dibattito che è vitale arrivi al concreto.
È chiaro che questa lunga serie di spunti, tutt’altro che di immediata e semplice applicazione, potrà vedere la luce solo se verrà rilanciato il senso del sacrificio, dell’amor di Patria e la formazione, tema quest’ultimo che deve riguardare in primo luogo il sindacato. Abbandonata la visione esclusivamente di rivendicazione e protesta, l’Ugl auspica che le organizzazioni dei lavoratori sappiano essere protagoniste dei tempi nuovi e dei cambiamenti tecnologici del futuro, assumendo un ruolo responsabile di collaborazione allo sviluppo e di preparazione dei professionisti e delle comunità del lavoro di domani. In questo senso Capone riporta le parole di Pietro Ichino, il quale ha detto che il sindacato «da organizzatore e difensore dell’operaio-massa deve diventare l’intelligenza collettiva che guida i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore sull’innovazione, quindi nella negoziazione di forme di retribuzione più legate all’aumento della produttività, se non addirittura della redditività dell’azienda. Il che porta dritto dritto a un aumento del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa. Del resto, nell’idea del lavoro agile c’è già, in embrione, l’idea della partecipazione del lavoratore alla gestione e al rischio dell’impresa» (p. 56). Nei contesti internazionali e nel quadro dell’Unione Europea (dove l’Ugl sta stringendo rapporti e alleanze con diverse realtà politico-sindacali internazionali, a partire da Spagna e Ungheria), si dovrà ricostruire la Nazione e la sua visione di lungo periodo, tornando a «ragionare sulla possibilità di attivare meccanismi di protezione per le nostre fasce produttive e sociali più deboli, sottraendole alla selvaggia concorrenza internazionale; avviare processi di reindustrializzazione; ridare al lavoro il valore (e la dignità) che gli sono propri; promuovere una nuova alleanza tra Capitale e Lavoro» (p. 21). Le politiche industriali, gli investimenti infrastrutturali con occhio particolare al Mezzogiorno e il tema della sicurezza sul lavoro (battaglia storica dell’Ugl) vengono indicate quali priorità stringenti per ricomporre il tessuto sociale della penisola, in cui le difficoltà economiche si accompagnano a un mondo “digitale” che troppo spesso invece di essere sfruttato per le sue potenzialità regala nuove forme di sorveglianza e un’atomizzazione e una «solitudine» sempre più accentuate.
Ecco allora che in una visione radicata e sociale come quella del sindacalismo nazionale può trovarsi la risposta la modello di Davos («non avrai nulla e sarai felice») che rischia di far letteralmente sparire i popoli europei e la loro storia.
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