di Spartaco Pupo
(tratto da Libero Quotidiano)
Il 15 aprile 1944 Giovanni Gentile cadeva a Firenze assassinato dal piombo partigiano. Gli assassini, come loro stessi dichiararono, dovevano ucciderne le idee.
A distanza di ottant’anni si può dire che uccisero solo il corpo del filosofo siciliano, perché le idee sono rimaste integre nel patrimonio culturale della sua amata Italia, al pari delle innumerevoli realizzazioni con cui ha strutturato l’architettura culturale della nazione. E quel che più conta è che da quel momento nella storia d’Italia entrarono anche la coerenza socratica e l’idea di libertà come antitesi alla schiavitù di quanti rincorrevano il potere “nuovo” sul vile calcolo di ingraziarsi il favore dei vincitori materiali della guerra.
Gentile meriterebbe celebrazioni molto più ampie di quelle che pure si annunciano. Servirebbe, specialmente ai più giovani, riscoprire il valore vero della sua battaglia intellettuale, che consistette nel liberare la cultura italiana dalle elucubrazioni verbose che ne isterilivano la “grandezza” sul panorama europeo e mondiale. Celebrare Gentile richiederebbe rituffarsi con umiltà nel suo sistema filosofico anche per comprenderne i possibili sbocchi se, vivendo oltre quel 15 aprile, avesse potuto dare continuità logica al suo attualismo. A lasciarlo presagire fu soprattutto Genesi e struttura della società, l’ultima sua opera che fece in tempo a stendere qualche mese prima dell’assassinio.
Occorre oggi trovare l’onestà di riconoscere che la sua dottrina fu il superamento definitivo del marxismo e del determinismo economico nel suo complesso. Altri, a partire da Croce, in questo determinismo restarono impigliati. Per superare il materialismo storico di Marx, Gentile dimostrò che i fatti della storia non sono determinati dall’economia, che è un fenomeno empirico e dunque materiale. Né vale includere, come faceva Croce, il fattore economico tra le categorie dello spirito, perché ciò equivale a far coincidere l’utile con il morale, l’azione umana con l’interesse utilitaristico. È ciò che, del resto, fa anche l’individualismo liberale nel concepire la libertà come ricerca dell’utile. Gentile combatteva anch’esso, vedendovi una gara tra “i più furbi e più dotati” che preferiscono fare a meno di uno Stato che disciplini le attività dei singoli a fini sociali.
Gentile fece superare al vecchio idealismo, ancora vivo grazie a Croce, la concezione dello Stato come mera dottrina, facendone un “fatto” che agisce dall’interno – e non al di sopra – dei rapporti sociali. Con Gentile lo Stato divenne in grado di costruire relazioni con la società civile in modo nuovo rispetto a quelle concepite dal nazionalismo ottocentesco, fautore, a suo avviso, di uno Stato aristocratico. Ciò basta a far respingere ogni assimilazione dello Stato gentiliano a un potere totalitario che annullerebbe in sé la società civile: al contrario, la esalta perché lo Stato “non è forza che si imponga dall’alto” ma “si attua nella coscienza e volontà dell’individuo”.
Gentile contrappose al positivismo e all’empirismo di Croce una visione spiritualistica della realtà come pensiero, tutta nella persona umana, considerata il perno della dinamica universale, proiettata alla trascendenza, che “intende quell’Assoluto onde tutto si regge e s’accorda, Dio”. La ricerca gentiliana di Dio è evidente nella sua concezione del mondo che esiste al di fuori dell’uomo e che è creazione divina.
La sua filosofia non fu mai mero “intellettualismo” ma, al contrario, “filosofia pratica” per il valore speculativo che fece assumere all’organizzazione della cultura: non solo la riforma epocale della scuola, ma anche l’Enciclopedia italiana, l’Istituto di Cultura Italia Germania, la Bocconi, la Normale di Pisa, la Casa Galileiana, l’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente e il Centro nazionale di studi manzoniani. Sta in queste e altre creature il valore storico, oltre che speculativo, dell’attualismo di Gentile. Qualcosa di irripetibile in termini sia quantitativi che qualitativi, che realizzò tanto nella veste di filosofo quanto in quella di ministro e organizzatore di cultura, e che è testimonianza vivente della concezione che Gentile aveva del rapporto tra cultura e politica. Checché ne dicessero Croce e gli altri nemici che tentarono di seppellirne anche la memoria, Gentile fu sempre contrario ai tentativi di confezionare una “cultura fascista” che, ai suoi occhi, sarebbe stata simile, benché contrapposta, a quella sovietica. Per questa reticenza chiamò sempre a collaborare, specialmente all’Enciclopedia, personalità del mondo culturale italiano che non si riconoscevano nel fascismo o che addirittura vi si opponevano. Cosa, anche questa, inusuale e incompatibile con l’atteggiamento di quanti, dopo la sua morte, hanno egemonizzato il mondo culturale per farne strumento di lotta politica al servizio di una sola fazione e contro ogni possibile pluralismo delle idee. Anche per questo il senso di responsabilità, l’altezza intellettuale e la generosità di Gentile rimasero qualità uniche nella storia istituzionale italiana. E la sostanza che differenzia l’attualismo gentiliano dalle dottrine naturalistiche rimase anch’essa integra fino all’ultimo, prima che i colpi di pistola esplosi dall’odio comunista ne spegnessero per sempre ogni ulteriore sviluppo.
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