Di Matteo Impagnatiello
Nel 1945, a guerra oramai finita, e precisamente nelle giornate del 26-27 aprile, alcuni reparti militari francesi oltrepassarono i nostri confini, entrando in Liguria e in Valle d’Aosta. Il tentativo era quello di annettersi parte del territorio italiano. Nel nome del supremo interesse nazionale (coloro che fino a pochi giorni prima erano nemici tra loro, i fascisti e gli antifascisti), i partigiani delle Fiamme Verdi si unirono con la divisione Monterosa per combattere insieme l’invasore francese. Il 22 giugno 1946 fu promulgata, con decreto presidenziale numero 4, l’amnistia Togliatti: l’obiettivo era la pacificazione nazionale.
Negli anni a venire, dopo la fine della guerra civile, altri episodi scandiranno quella che doveva essere la giusta direzione da percorrere, e cioè la riconciliazione nazionale. Ecco affacciarsi alla memoria numerosi passaggi. Stanis Ruinas e Giorgio Pini, riuniti con altri camerati intorno alla rivista “Pensiero Nazionale”, ebbero numerosi contatti anche con i dirigenti comunisti Pajetta e Longo. O quando l’allora segretario dei giovani comunisti, Enrico Berlinguer, organizzava dibattiti nelle sezioni del partito comunista italiano e fu invitato a parlare Rauti, il quale si recò alla Casa del popolo di Montesacro, a Roma. O ancora, quando nel giugno del 1984, il segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante, varcava il portone delle Botteghe Oscure e, ricevuto dai dirigenti comunisti Nilde Jotti e Giancarlo Pajetta, si inchinava davanti alla bara di Enrico Berlinguer.
La via del disgelo, con tali precedenti, poteva dirsi iniziata. Ma così non è. Anzi, a volte sembra di essere tornati al punto di partenza. Sono trascorsi 75 anni dalla fine del secondo conflitto e le nuove generazioni ricevono in eredità un Paese ancora lacerato dall’odio, con le ferite aperte, come se fossimo ancora in guerra e l’avversario politico (o, più semplicemente, chi dissente) un nemico da eliminare. La concezione “partigiano-centrica” con cui è stata forgiata la storia italiana dell’ultimo dopoguerra ha ghettizzato il cordoglio dei familiari degli altri italiani caduti nel conflitto e continua a trasmettere la cultura del nemico piuttosto che la cultura dell’avversario politico. E’ un passato tuttora ingombrante, che pesa addosso ai pronipoti di chi lo ha vissuto. Ancora oggi, esprimere le proprie idee può risultare problematico: è l’Inquisizione, con la caccia alle streghe.
Nella nostra società post-moderna, privatizzata, vulnerabile e globalizzata, questa visione storico-politica annulla l’identità nazionale e favorisce la divisione e contrapposizione tra italiani, aprendo la Nazione ad altre prospettive religiose, giuridiche, economiche, culturali e sociali. La riconciliazione è superamento dell’odio e confronto per conoscere la storia di un popolo e dei popoli, scambi di conoscenze per la costruzione di un nuovo Stato nazionale. Negare la parola a chicchessia, con un pregiudizio infantile, resta un comportamento antiumanitario, perché è inconcepibile trovarsi all’interno di uno Stato democratico che teme l’idea diversa. Con l’idea diversa, si esce dalla “caverna di Platone” per avviarsi verso la conoscenza, il futuro.
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