“ESPROPRIARE GLI ESPROPRIATORI”, L’EREDITA’ PROVOCATORIA DI GIORGIO GALLI

“ESPROPRIARE GLI ESPROPRIATORI”, L’EREDITA’ PROVOCATORIA DI GIORGIO GALLI

Di Mario Bozzi Sentieri

“Era attento, curioso, non si accontentava dell’ufficialità ma voleva scavare, andando oltre le verità acquisite” : questa la sintesi esemplare di ciò che è stato Giorgio Galli, scomparso il 27 dicembre, a 92 anni, espressa da Danco Singer, direttore del Festival della Comunicazione di Camogli, al quale Galli, che aveva fatto della cittadina ligure il suo buen retiro, amava partecipare seduto tra il pubblico. Pur avendo alle spalle un lungo itinerario intellettuale  quale  docente di Storia delle dottrine politiche alla Statale di Milano, segnato da collaborazioni giornalistiche di prestigio e da  una bibliografia sterminata, con testi che hanno animato il dibattito politologico italiano (un saggio tra tutti “Il bipartitismo imperfetto”, uscito nel 1966 per il Mulino), Galli è stato “curioso” fino alla fine, andando oltre i confini dell’accademismo paludato e della ufficialità storica. Ha  guardato a destra con non comune anticonformismo, si è interrogato sulle radici esoteriche del nazismo, fino ad analizzare recentemente il ruolo egemone delle multinazionali nel capitalismo globalizzato e soprattutto nel periodo della pandemia (“Il potere che sta conquistando il mondo”, Rubettino 2020). Anche qui sorprendendo per la sua vena polemica.

Invitato, qualche mese fa,  da Carlo Rognoni ad intervenire sulla rivista “Storia e Memoria”  per un numero dedicato alla democrazia, Galli non si è limitato  a “chiosare” la crisi dei sistemi democratici, messi sotto scacco dal potere delle multinazionali. Di fronte all’invasività del nuovo potere globalizzato (“Trecentoottantasei imprese multinazionali – scrive – hanno in mano i destini  del pianeta”) e al fatto che “la democrazia è a repentaglio perché la maggior parte degli Stati-continente, fuori dall’area euro-nordamericana, sono democrazie solo elettorali e le multinazionali sono rette da élite autoselezionatesi e per questo non scelte democraticamente”, Galli fa una proposta a dir poco inusuale, se non provocatoria.

Partendo dalle analisi del politologo americano Roberto Dahl, preoccupato dell’ involuzione in senso oligarchico della democrazia, il nostro  focalizza la sua attenzione sull’ informazione dell’elettorato: L’estensione del suffragio universale  – scrive – era basata sul presupposto illuminista che l’alfabetizzazione di massa, la scuola e la stampa fossero sufficienti a creare il cittadino sufficientemente informato della cosa pubblica e voglioso di partecipare alla sua gestione attraverso il voto. Tuttavia il successivo diffondersi della radio prima e della Tv poi e infine l’universo massmediatico dominato dai big data delle multinazionali informatiche hanno, invece, creato una situazione di disinformazione diffusa, dominata dall’immediatismo e dalla manipolabilità”. E poiché il potere si controlla nei luoghi in cui viene effettivamente esercitato, la conclusione – puntualizza  Galli – è estendere il diritto di voto per controllare un potere economico che oramai sovrasta quello politico. Non resta allora, quale logica  conseguenza della filosofia politica democratica  – ecco l’estrema provocazione di Galli  – che arrivare  all’elezione diretta a suffragio universale di almeno una parte dei consigli di amministrazione delle circa quattrocento multinazionali che decidono le sorti del pianeta: “Le elezioni possono funzionare anche per la selezione di quella particolare “superclass” che sono le élite dei consigli di amministrazione delle multinazionali, i ricchissimi e i grandi dirigenti (cioè la tecnocrazia manageriale), i quali operano ormai “con i soldi degli altri” sul “mercato d’azzardo”. Si tratterebbe dunque di espropriare gli espropriatori, conferendo ai cittadini la possibilità di scegliere i gestori di ricchezze “delle nazioni”, come direbbe Adam Smith, frutto del lavoro dell’intera collettività”. Al fondo della “provocazione” di Galli c’è molto di più di un generico richiamo all’espropriazione economica del capitalismo – così cara alla vulgata comunista. C’è piuttosto l’invito ad essere consapevoli  dei reali rapporti di forza tra democrazia (nel senso letterale di potere del popolo) e controllo globalista, arrivando a  lacerare il velo di ipocrisia che copre il vecchio parlamentarismo (ormai svuotato del potere decisionale) per portare la verifica  democratica all’interno dei consigli d’amministrazione. Fallito il modello marxista di controllo dei mezzi di produzione e quello liberale di regolamentazione delle multinazionali, Galli gioca – in definitiva –  sulla “disarticolazione” realistica degli assetti di potere, invitando a fuoriuscire dall’ipocrisia democratico-liberale per accettare  le sfide della modernità. Dalle aziende allo Stato ai contesti globalizzati: un viatico per guardare al di là dei bassi orizzonti di un Sistema che ormai ha dimostrato  la sua inadeguatezza, gestionale e rappresentativa, economica e politica; una “provocazione” che va approfondita e declinata sul piano della prassi, vera e propria ipotesi di lavoro “eccentrica” che Galli consegna all’attualità.

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