di Mario Bozzi Sentieri
La cogestione aziendale, annunciata nella Costituzione italiana, ma mai applicata, è ormai una necessità. Lo impongono le trasformazioni tecnologiche, i processi di riconversione industriale, la crisi ed il dopo Covid. In Parlamento giacciono letteralmente alcune proposte in materia. Sarebbe utile portarle all’attenzione dell’opinione pubblica, facendone oggetto di un confronto tra le parti sociali, rendendo finalmente chiare le rispettive posizioni ed evitando ogni traccheggiamento. Come purtroppo sta facendo il Segretario Generale della Cgil, Maurizio Landini, pronto a richiedere – a parole – il confronto tra aziende e sindacati sulle scelte strategiche relative alla riconversione produttiva del Paese, ma non disposto ad affrontare finalmente l’annosa questione della cogestione, sul modello tedesco, quasi che fosse un’eresia.
Intervistato, per “La Stampa”, da Paolo Griseri, all’ipotesi di “fare come in Germania”, dove i sindacati cogestiscono le aziende sedendo in consiglio d’amministrazione, Landini ha respinto – tra il serio ed il faceto – la possibilità che i lavoratori posseggano azioni e siedano nei cda aziendali (“”Non abbiamo bisogno di copiare altri. Noi italiani siamo abbastanza creativi, siamo noti per quello”) preferendo una “codeterminazione” dai tratti a dir poco evanescenti. L’impegno – parole del Segretario Generale della Cgil – deve essere una generica consultazione “prima sulle scelte strategiche e a difendere insieme lavoro e occupazione”.
Ciò che lascia perplessi è l’indeterminatezza e la sostanziale confusione “strategica” del rappresentante del sindacalismo “rosso”, un “rosso” ormai sbiadito, visti certi zig-zag lessicali: occorre investire sulla partecipazione, ma non sulla cogestione (la più alta ed organica forma partecipativa, prevista peraltro dalla Costituzione); evitare un autunno caldo e conflittuale è una possibilità, ma non un obbligo; codeterminare va bene, ma senza che questo sia impegnativo per le parti. Insomma, poche idee ed oscure, con il malcelato timore di apparire evidentemente troppo “dialogante” e “partecipativo”.
Sulla cogestione, bestia nera della sinistra politica e sindacale, Landini è peraltro in buona compagnia.
Nel marzo scorso, Enrico Letta, durante il suo discorso di insediamento ai vertici del Pd, aveva parlato di “Economia della condivisione”, auspicando un coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle aziende, attraverso la partecipazione azionaria. Oltre le buone intenzioni non era però andato. Come, nel passato, era già accaduto a Walter Veltroni (genericamente “aperturista” verso l’idea dell’economia della partecipazione” quale “nuova forma di democrazia economica”) e perfino a Susanna Camusso, Segretaria Generale della Cgil prima di Landini, impegnata ad affermare la necessità di “riconoscere, a partire dalle aziende pubbliche, l’articolo 46 (ndr. democrazia economica) della Costituzione”, ma ben poco propensa a passare dalle parole ai fatti.
Quello di Landini, di Letta, e prima di Veltroni e della Camusso è il vorrei-ma-non-posso di una sinistra ancora rinchiusa nei vecchi schematismi ideologici della conflittualità e del classismo, ormai inadeguati ad affrontare le nuove domande determinate dalla “riconversione” tecnologica e dai nuovi assetti sociali. Meglio accettare i compromessi e tenersi sulle generali piuttosto che dare risposte fondanti sul tema della partecipazione, magari auspicando vecchie “cabine di regia” per governare la riconversione produttiva, reputando però i lavoratori inadatti ad entrare nei cda per realizzare veramente la necessaria trasformazione del Paese.
L’Italia non ha bisogno di interventi frammentari o di una “codeterminazione” debole, più simile alla vecchia concertazione che ad un’autentica politica inclusiva in grado di dare ali alle nuove politiche produttive. Di queste politiche i lavoratori debbono essere i protagonisti più che – come nel passato – gli esecutori passivi. A livello di base hanno le competenze e la volontà per ben operare. Ora debbono essere messi alla prova.
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