CORRADINI, VIANA E LE ORGINI DEL NAZIONALISMO ITALIANO: IL MONARCHISMO SOCIALE DELLA RIVISTA IL TRICOLORE

CORRADINI, VIANA E LE ORGINI DEL NAZIONALISMO ITALIANO: IL MONARCHISMO SOCIALE DELLA RIVISTA IL TRICOLORE

Di Filippo Del Monte

Tra le espressioni della stampa nazionalista nell’Italia della Belle Epoque un posto d’onore spetta  a Il Tricolore di Torino, rivista da cui poi scaturiranno gruppi di militanti politicamente effimeri ma culturalmente fondamentali per il successivo sviluppo del “nazionalismo ufficiale”. Nata nel luglio 1909, Il Tricolore vantava tra i suoi collaboratori, tra gli altri, Enrico Corradini e Mario Viana, il primo “padre nobile” del nazionalismo italiano novecentesco, il secondo pioniere da destra della sintesi nazional-sindacalista che tanta fortuna avrà negli anni successivi. Nello statuto dei gruppi de Il Tricolore – diretta filiazione della rivista – è contenuto il programma politico che si basa su pochi e chiari punti: culto della nazione ed aspirazione alla conquista delle terre irredente; imperialismo mediterraneo; culto della monarchia e delle forze armate; opposizione a “quelle leggi sociali che tendano a vincolare le libertà individuali”.

La rivista, al di là del suo carattere squisitamente monarchico e militarista, ebbe importanza vitale per il nascente nazionalismo anche per le sue teorie in campo sociale ed economico che verranno successivamente riprese da Corradini per sviluppare le idee di “nazione proletaria” e “socialismo nazionale”, veri “marchi di fabbrica” di un nazionalismo diverso – anche se non tutti gli storici concordano su questo – da quello francese maurrassiano, all’epoca considerato un modello politico e culturale. Fu Mario Viana a sviluppare le tesi che avrebbero dato vita ad una particolare sintesi di nazionalismo monarchico e sindacalismo rivoluzionario: nel 1908 Viana aveva fondato a Biella una associazione sindacale con l’intento di incanalare la lotta di classe nel contesto della “solidarietà nazionale” pur senza negare l’esistenza di due classi ben distinte, proletariato e borghesia, con interessi sicuramente diversi ma non divergenti.

Del resto all’inizio del Novecento quella di Biella era una realtà particolarmente indicata per tentare un esperimento di questo tipo: a partire dalla prima metà dell’Ottocento la cittadina piemontese era stata interessata dalla rapida crescita industriale e nei primi anni dell’unità era uno dei poli del settore tessile nazionale. Tra il 1874 ed il 1876 ben diciassette erano stati gli scioperi operai dovuti al mancato rispetto, da parte degli industriali, del Regolamento Mancini (scritto dal giurista e futuro ministro Pasquale Stanislao Mancini su richiesta di Quintino Sella) sui rapporti di lavoro in fabbrica ed allo spettro della crisi economica che aveva portato ad una drastica contrazione dell’occupazione. Nel 1877 si era verificato uno sciopero generale, iniziato a causa dell’approvazione del nuovo Regolamento sui rapporti lavorativi in fabbrica varato dagli industriali in contrapposizione a quello del 1864. Partito dall’iniziativa degli operai tessili, radunati sotto i vessilli delle Società di Mutuo Soccorso, lo sciopero s’era poi esteso a tutte le maestranze arrivando a lambire perfino la Lombardia. Dopo tre mesi e mezzo di disordini, con il governo centrale che era stato costretto a ricorrere allo stato d’assedio, gli industriali rinunciarono al Regolamento del 1876 ristabilendo la normativa del 1864. Fin dalla sua nascita nel 1882 era stato facile per il Partito Socialista Italiano farsi portavoce degli interessi degli operai anche nel biellese e l’iniziativa di Mario Viana – che avrà vita breve e riuscirà a raccogliere decisamente pochi sostenitori – aveva per obiettivo proprio quello di contrastare l’egemonia sindacale e politica socialista pur senza piegarsi ai dettami classici del “sindacato giallo”.

Il sindacalismo rivoluzionario e Sorel

Enrico Corradini fu il maggior esponente della corrente nazionalista del primo Novecento in Italia. Se dal punto di vista politico l’esperienza sindacale di Viana a Biella altro non fu che un tentativo malriuscito di “pacificare” la lotta di classe, da quello dell’elaborazione culturale e programmatica fu ricca di spunti: erano quelli gli anni della crescita del sindacalismo rivoluzionario anche in Italia sull’onda delle teorie sull’autonomia del proletariato, del primato del sindacato e del mito della violenza rivoluzionaria sviluppate da Georges Sorel in Francia e prontamente recepite in Italia.

Sorel scrisse: «Gli scioperi hanno prodotto nel proletariato i sentimenti più nobili, più profondi e più dinamici che egli possieda; lo sciopero generale li unisce in un quadro d’insieme, e, attraverso il loro accostamento, dà a ciascuno il massimo d’intensità; facendo appello ai più ribollenti ricordi delle lotte particolari, esso colora di un’intensa vita ogni dettaglio della composizione presente alla coscienza» (Réflexions sur la violence, 1906) elevando così lo sciopero a “mito di lotta”; Mario Viana per la sua formazione monarchico-nazionale non avrebbe però potuto accettare questa interpretazione preferendo di gran lunga le tesi “produttiviste” del teorico francese.

Il 16 settembre 1909 su Il Tricolore Viana scrisse un articolo intitolato emblematicamente “Lotta di classe e solidarietà nazionale” nel quale spiegò che la crescita della produzione nazionale sarebbe stata un beneficio per tutta la società e perciò i lavoratori avrebbero dovuto mettere da parte le loro rivendicazioni e che esse erano in sostanza il prodotto dell’azione politica sovversiva dei socialisti e non l’espressione dei reali bisogni degli operai. Da qui scaturì la condanna senza appello di Mario Viana allo “sciopero generale politico”, feticcio del Partito Socialista Italiano e gesto preparatorio alla rivoluzione proletaria. L’integrazione delle masse proletarie all’interno del processo produttivo nazionale, prima tappa verso la loro “nazionalizzazione” sotto l’egida del conservatorismo monarchico, era un processo già teorizzato in Germania da Friedrich Naumann, fondatore della Associazione Sociale Nazionale, a partire dal 1896 con l’idea del “socialismo monarchico” e poi sviluppato nel 1904 nel saggio Die Kunst in Maschinenzeitalter (L’arte nell’epoca della macchina).

Réflexions sur la violence fu il testo più significativo di Sorel e quello che maggiormente venne preso come punto di riferimento per l’intero movimento del sindacalismo rivoluzionario. Una città compiutamente industrializzata – con tutte le contraddizioni sociali ed economiche che ne derivavano – come Torino, ambiente nel quale si muovevano i fondatori de Il Tricolore – era il brodo di coltura ideale per teorie “sincretiche” e, se da una parte, l’invito di Viana rivolto agli operai di rinunciare a qualunque rivendicazione sul breve periodo poteva essere visto come una scelta di campo al fianco degli imprenditori, Corradini aveva già in precedenza chiarito, sulle pagine della rivista, la questione:

Se questo gruppo vuole avere una vita utile, deve incominciare dallo stabilire chiarissimamente che la sua azione ha per iscopo il bene della nazione, di tutta la nazione, di tutto il popolo, e non l’interesse d’una classe, o d’una istituzione. Rispetto al suo amore per il popolo, per la classe dei lavoratori, il partito nazionalista non può essere se non un partito popolare. Bisogna affermare la fede nel progresso di questa classe» (Incominciando, in Il Tricolore, 16 luglio 1909)

Dare forma allo Stato e alla Nazione

Corradini non riconosceva diritti politici ai ceti più umili, tanto da dichiararsi contrario all’introduzione del suffragio universale maschile, ma riteneva che il nazionalismo, in quanto tale, avrebbe dovuto fare gli interessi di tutta la nazione e quindi anche del proletariato. La posizione di Viana, per quanto rigidamente schierata a destra, era invece possibilista da questo punto di vista nell’ambito di una lotta antidemocratica che avrebbe dovuto unire borghesia e proletariato.

La nazionalizzazione delle masse non poteva essere coattiva, allo sforzo pedagogico (attraverso il ruolo fondamentale della scuola dell’obbligo e dell’esercito di leva) dello Stato doveva corrispondere la volontà proletaria d’accettare una “ferrea legge” che, se da una parte precludeva qualunque aspirazione d’ascensione sociale, dall’altra garantiva la stabilità e la pace sociale. Particolarmente sentita da questi primi nazionalisti era infatti la necessità di depotenziare la carica eversiva dello sciopero rafforzando il principio di unità – pur se nella diversità sociale – comunitaria. La frattura esistente tra popolo e Stato andava necessariamente sanata per accrescere la potenza italiana e non come scopo ultimo dell’azione politica.

Pur con tutti i limiti connessi alla gestazione di un pensiero complesso e con qualche nodo da sciogliere – come ad esempio la “funzione nazionale” dello sciopero scisso dalla lotta di classe – il “monarchismo sociale” dei nazionalisti torinesi guidati da Viana influenzò notevolmente la formazione e la successiva codificazione della dottrina ufficiale del nazionalismo. Resta indubbio poi che quello de Il Tricolore fu un caso raro, da destra, di convergenza con il sindacalismo rivoluzionario e di esposizione di tesi originali estrapolate dal pensiero soreliano e riadattate ad una Italia impegnata nel difficile compito di costruire lo Stato per dare forma alla Nazione

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