Di Mario Bozzi Sentieri
“Le guerre hanno anche, in genere, un effetto ‘costituente’, forgiano, nei vari Paesi, gli equilibri successivi’: parola di Angelo Panebianco, sul “Corriere della sera”. Andando oltre si può dire che – in un mondo complesso ed interconnesso – le guerre “forgino” i nuovi equilibri globali, mettendo in discussione quelli che parevano consolidati. Due anni di emergenza Covid-19 hanno lasciato il segno. Un mese di guerra tra Russia ed Ucraina sembra confermare quest’idea. A partire proprio dalla globalizzazione, uno dei moloch intorno a cui, da un trentennio a questa parte, si sono assestati gli equilibri economici, finanziari e geopolitici del mondo. La deglobalizzazione non è più un tabù. Al contrario: sono i grandi guru del mondo della finanza ad annunciarla, parlando di una “nuova narrativa” sulla globalizzazione: prima vittima l’espansione, che pareva inarrestabile, degli scambi di beni, capitali e persone, in mondo aperto, senza confini e limiti. C’è chi paventa forme di autarchia – seppure camuffata da rigore produttivistico.
Il mercato e le aziende, costrette a fare i conti innanzitutto con i costi dell’energia e con il rischio di arresti improvvisi sulla rete produttiva/distributiva riscoprono le filiere brevi ed i territori casalinghi. A molti sono ben presenti le immagini della nave portacontainer Ever Given – tra le più grandi al mondo – incagliata, nel marzo 2021, sul canale di Suez, bloccandone il transito per ben sei giorni (con un danno per il commercio internazionale di 9.600 milioni di dollari). Così come non sono passati inosservati, nel maggio e giugno 2021, i fermi, causa Covid-19, nei principali porti cinesi, con conseguenti aumenti dei noli e ritardi di consegna sul mercato europeo. I risultati sono apparsi ben evidenti sulle aziende manifatturiere, del tutto dipendenti dalla componentistica “made in China”.
Nel giugno scorso, la Casa Bianca ha pubblicato un rapporto in tema di “Creazione di catene distributive resilienti, rilancio dell’industria statunitense e incentivi alla crescita su vasta scala”. Vi si legge: “La pandemia e i connessi scompensi economici hanno rivelato vulnerabilità strutturali delle nostre catene di distribuzione. Le severe ripercussioni che l’emergenza Covid-19 ha impresso all’andamento della domanda di numerosi prodotti medici, compresi i farmaci essenziali, hanno causato danni al sistema sanitario degli Stati Uniti. Nella misura in cui la popolazione ha dovuto lavorare e studiare da casa, si è creata una scarsità globale di chip semiconduttori che ha colpito, fra gli altri, i prodotti dei settori automobilistico, industriale e delle comunicazioni”. Passando dalle parole ai fatti gli Stati Uniti hanno stanziato miliardi di dollari per spingere le aziende americane, operanti nel settore semiconduttori (oggi prodotti all’80% in Asia) a costruire fabbriche negli States.
Su un altro fronte, l’incontro bilaterale che si è tenuto a Tunxi, nella provincia dell’Anhiu, tra il ministro degli esteri cinese Wang Yi e il suo omologo russo Sergej Lavrov ha messo in chiaro come Cina e Russia stiano portando avanti un piano per spostare il baricentro geopolitico mondiale e ha confermato la comunione d’intenti dei due Paesi. Non a caso si parla di una “frammentazione” in blocchi concorrenti: uno costruito intorno agli Stati Uniti, uno fissato sull’asse Cina-Russia, l’altro europeo.
L’Europa però che cosa fa? A quale modello socio-economico, venuti meno i vecchi riferimenti, intende richiamarsi? Con quale visione geopolitica? Dove vuole guardare, posto che ad Est le frontiere sono bloccate? Le riflessioni languono e le conseguenti contromisure.
Tornano alla mente le provocatorie, ma lucide analisi di Guillaume Faye, giovane esponente della Nouvelle Droite, il quale, nella prima metà degli Anni Ottanta del ‘900, in Contre l’économisme, già prefigurava un’economia non più in un quadro planetario e/o nazionale, ma sub-continentale, organizzata per aree omogenee dal punto di vista storico e culturale; con un’Europa tecnologicamente all’avanguardia, in un sistema di mercato intra-europeo sottoposto ai principi del surplus, della “creazione monetaria diretta”, dell’autarchia dei grandi spazi; con “uno Stato che non fosse né totalitario, né mercantile, né paternalistico, né socializzatore, che lasciasse ‘girare’ le forze creative del mercato pienamente, ma assegnando loro dei limiti ben fissati, in breve uno Stato che non facesse l’economia, ma la dirigesse e che la dirigesse politicamente e giuridicamente, ma non più economicamente e socialmente”. Al centro l’idea di un sistema in cui gli individui si sentano mobilitati da obiettivi politici, nazionali, collettivi, “lirici”, ecc. Del marxismo – diceva Faye – io conservo l’idea della pianificazione, del liberalismo conservo l’idea del mercato (che non gli appartiene tuttavia in esclusiva).
E’ il tempo delle ridiscussioni. Delle riflessioni adeguate allo scarto epocale. E’ il tempo dei pensatori alla Faye.
Nel rimescolarsi delle carte della globalizzazione, sotto la spinta del Covid-19 e dell’emergenza bellica, prendere atto che l’Europa, oggi, rappresenta l’area più debole ed esposta ai venti della crisi significa andare oltre le polemiche contingenti e gli interventi tampone. Per prendere coscienza dei nuovi assetti mondiali e delle sfide che verranno: geopolitiche e produttive, energetiche e finanziarie, commerciali e militari. Qui si gioca il nostro destino. Esserne consapevoli è il primo passo per attivare le doverose contromisure, evitando di essere travolti da una crisi che si preannuncia drammatica.
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