di Mario Bozzi Sentieri
Non è che manchi il lavoro, è che mancano i lavoratori: dati alla mano è il grande paradosso di questi anni, di transizione e di trasformazioni profonde. Nuove professioni emergono, altre sembrano essere al tramonto. Nella partita del dare e dell’avere statistico da qui al 2030 pare che – previsioni alla mano – verranno creati nel mondo 170 milioni di posti di lavoro, di cui 92 milioni di ruoli andranno “in sostituzione”, con un aumento netto di 78 milioni di nuove figure professionali. Non solo esperti di intelligenza artificiale ma anche autisti, educatori, contadini, operai edili, infermieri, baristi e insegnanti. Per restare al passo occorre investire nella formazione e nello sviluppo delle competenze.
Più in generale si prevede che i progressi nell’IA, nella robotica e nei sistemi energetici, in particolare nelle energie rinnovabili e nell’ingegneria ambientale, aumenteranno la domanda di ruoli specializzati in questi settori.
Le figure meno richieste invece saranno cassieri, commessi, guardie giurate, segretari, colf, stampatori, bibliotecari, grafici.
È quanto emerge dall’ultimo Rapporto sul Futuro del Lavoro 2025 – pubblicato dal World Economic Forum – sulla base di dati provenienti da oltre 1.000 aziende, secondo il quale “i progressi tecnologici, i cambiamenti demografici, le tensioni geoeconomiche e le pressioni economiche sono i fattori chiave” che rimodelleranno il mercato del lavoro nel prossimo futuro.
Il 63% dei datori di lavoro ritiene che la carenza di competenze sia il principale ostacolo alla trasformazione delle imprese in risposta alle macrotendenze globali.
Se la forza lavoro globale fosse rappresentata da un gruppo di 100 persone, il Rapporto evidenzia che “si prevede che 59 necessitino di riqualificazione o aggiornamento entro il 2030 – 11 delle quali difficilmente lo riceveranno; ciò si traduce in oltre 120 milioni di lavoratori a rischio di licenziamento a medio termine”.
“È giunto il momento per le imprese e i governi di lavorare insieme, investire nelle competenze e costruire una forza lavoro globale equa e resiliente” – ha dichiarato Till Leopold, responsabile del settore Lavoro, salari e creazione di posti di lavoro del World Economic Forum.
Il Wef osserva che “l’IA sta rimodellando i modelli di business e la metà dei datori di lavoro a livello globale sta pianificando di riorientare la propria attività per cogliere le nuove opportunità derivanti dalla tecnologia”.
La risposta più comune della forza lavoro a questi cambiamenti dovrebbe essere l’aumento delle competenze dei lavoratori, con il 77% dei datori di lavoro che prevede di farlo. Tuttavia, il 41% prevede di ridurre la forza lavoro a causa dell’automazione di alcune attività.
Quasi la metà dei datori di lavoro prevede di trasferire il personale dai ruoli esposti alle interruzioni dell’IA ad altri settori dell’azienda, un’opportunità per alleviare la carenza di competenze e ridurre al contempo il costo umano della trasformazione tecnologica.
L’aumento del costo della vita è un altro fattore chiave per il cambiamento del mercato del lavoro, e la metà dei datori di lavoro prevede che trasformerà i modelli aziendali.
Queste sfide aumentano la richiesta di resilienza, agilità, flessibilità e capacità di pensiero creativo.
I cambiamenti demografici, prosegue il Rapporto, “stanno ridisegnando i mercati del lavoro: l’invecchiamento della popolazione, soprattutto nei Paesi a più alto reddito, spinge la domanda di ruoli nel settore sanitario e l’espansione della popolazione in età lavorativa nelle regioni a basso reddito alimenta la crescita delle professioni educative.
Le strategie per la forza lavoro incentrate sul miglioramento delle competenze di gestione dei talenti, insegnamento e tutoraggio sono essenziali per colmare questi divari”.
Affrontare i profondi cambiamenti delineati nel Rapporto richiede un’azione urgente e collettiva da parte del governo, delle imprese e dell’istruzione.
Dando priorità a strategie e transizioni della forza lavoro eque e inclusive – e sostenendo i lavoratori in queste trasformazioni – le parti interessate possono costruire una forza lavoro globale resiliente e adattabile, pronta a prosperare nei lavori di domani.
Secondo il Wef, “le competenze in più rapida crescita entro il 2030 comprenderanno le competenze tecnologiche insieme a quelle umane, come le capacità cognitive e la collaborazione”.
Per questo motivo, “è urgente un’azione collettiva nei settori pubblico, privato e dell’istruzione per affrontare le crescenti carenze di competenze”.
In questa fase di transizione appare evidente come la conflittualità ideologica non sembri più essere un orizzonte realistico, sia per i lavoratori che per il mondo imprenditoriale. Meglio mediare, costruire percorsi condivisi, fidelizzare i dipendenti, riconoscendone il valore professionale. L’idea del lavoro come merce, teorizzata da Marx e concretizzatasi con il capitalismo, non regge più il confronto con la realtà economica, sociale e tecnologica del Terzo Millennio.
Partendo da questa presa d’atto si può comprendere, dati alla mano, l’emergere di una nuova sensibilità collettiva, allo stato nascente, che vede nel benessere dei lavoratori e nell’azionariato dei dipendenti le nuove frontiere di una più alta e matura consapevolezza sociale.
La soddisfazione dell’impiegato ha una correlazione positiva con la fedeltà del cliente e una correlazione negativa con il ricambio del personale. È importante sottolineare che la maggiore fedeltà del cliente e la produttività dei dipendenti, come anche il minore ricambio del personale, si riflettono nella maggiore redditività delle unità aziendali. Nel complesso i dati indicano l’importanza universale del benessere dei dipendenti in tutti i settori.
Tradotti in estrema sintesi questi dati vogliono dire che le buone pratiche d’impresa e la fidelizzazione dei dipendenti rappresentano le nuove frontiere (anche contrattuali) sulla via dell’integrazione sociale e della trasformazione dei rapporti tra datore di lavoro e lavoratori in un patto associativo permanente.
Per quanto significativi questi dati non esauriscono il più ampio e complesso tema della partecipazione sociale e di una cogestione che non si limiti all’espansione dell’azionariato dei lavoratori. Siamo cioè in premessa di un discorso che va approfondito e reso più diffuso.
Al fondo – questo però è il dato più rilevante – è che grazie a questi processi d’integrazione va crescendo una volontà partecipativa capace di permeare l’intero assetto sociale: nuova consapevolezza (dei lavoratori e dei datori di lavoro), risultati immediati (in grado di realizzare le cosiddette “buone pratiche” all’interno delle aziende), integrazione (grazie all’azionariato). La prospettiva è la realizzazione di autentiche e più alte forme di partecipazione: prospettiva essenziale in una fase di passaggio tecnica e gestionale qual è quella attuale.
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