IL TRADIMENTO DELLA SINISTRA. I RISVOLTI DELL’IMMIGRAZIONE NEL CAMPO DEL LAVORO

IL TRADIMENTO DELLA SINISTRA. I RISVOLTI DELL’IMMIGRAZIONE NEL CAMPO DEL LAVORO

di Luca Lezzi

La lenta ma definitiva trasformazione della sinistra europea e anglo-sassone iniziata nel corso degli anni Novanta ha portato la corrente politica che, rifacendosi al socialismo delle origini, si dichiarava fin dalla sua nascita a tutela delle classi lavoratrici su posizioni opposte dettate dalla sottomissione al politicamente corretto, ideologia figlia del pensiero unico del nuovo millennio.

Partiamo dagli albori: ha ancora senso definire oggi l’immigrazione come un’emergenza? Lo stato di emergenza di per sé implicherebbe una fase, un “momento critico” secondo l’enciclopedia Treccani, insomma qualcosa di profondamente diverso dalla continuità del fenomeno a cui siamo purtroppo abituati da almeno trent’anni. E’ ovvio che qui rientri anche il ruolo dei mass media che tendono, così, a svilire o a ridurre il significato di un termine paragonandolo a espressioni non del tutto simili ma che consentono un ingresso diffuso nel vocabolario quotidiano perdendo l’originaria capacità di incutere timore. Una volta ridottane l’efficacia ecco che la parola, in nome della neolingua imperante in epoca di cancel culture, viene sostituita da una nuova permettendo una sottovalutazione dell’evento.

Ed è proprio l’immigrazione il tallone d’Achille della nuova sinistra, spesso avvisata senza alcun successo da suoi storici esponenti ma mai in grado di comprendere il binomio tragicamente rivoluzionario con il mondo del lavoro. Se nell’immaginario progressista il ricorso alla risorsa straniera dovrebbe andare a colmare competenze assenti tra la popolazione locale appare evidente, dati alla mano, che è esclusivamente nella manodopera che questo massiccio afflusso si fa largo per la disponibilità a lavorare di più in cambio di compensi minori spesso senza ricorrere a diritti sindacali o invocare la sicurezza sul lavoro. E’ in questo modo che si presenta il marxiano “esercito industriale di riserva” che, mantenendo alta l’offerta, riduce i salari. Eppure alla massima che recita “non esistono lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma salari che non possono più accettare” si risponde banalmente tacciando di razzismo chiunque si esprima così, che abbia la tessera di un sindacato della triplice o dell’antenato rosso del Pd poco importa, la deriva populista è degna di essere tacciata di fascismo, razzismo, sessismo e chi più ne ha, più ne metta.

Altro problema, non di minor importanza nella lotta tra poveri autoctoni e allogeni, è quello per l’assegnazione delle case popolari. Nei grandi centri si assiste ormai al superamento (in percentuale) di assegnazioni a stranieri (si vedano i dati Sicet del 2012 per Milano o quelli 2014 di Bologna) nonostante il numero di cittadini stranieri sia ancora inferiore a quello degli italiani. La sottrazione degli alloggi popolari agli autoctoni fa crescere il costo delle case creando un trasferimento di ricchezza dai poveri, che soggetti a pagare l’affitto o il mutuo diventano ancor più poveri vedendosi ridurre il risparmio per altri generi di acquisti, ai ricchi multiproprietari che s’arricchiscono ancora di più.

La realtà è che l’immigrazione è un fattore importante di aggravamento degli effetti della mondializzazione sul potere contrattuale dei salariati e sulle condizioni generali di vita dei ceti popolari. Come sostengono Aldo Barba e Massimo Pivetti ne Il lavoro importato. Immigrazione, salari e stato sociale edito da Meltemi “solo escludendo ogni concorrenza tra lavoratori di nazioni diverse possono aversi forme di solidarietà. L’importazione dei lavoratori è il canale più diretto attraverso il quale si verifica questa concorrenza, di per sé incompatibile con la solidarietà”.

Globalizzazione e immigrazione camminano a braccetto, la seconda è la testa di ponte della prima. Il tradimento della sinistra, assunta a élite politico-dirigenziale con i vari Tony Blair, Barack Obama, Matteo Renzi e Emmanuel Macron è avvenuto nel nome della globalizzazione, secondo una devozione internazionalista a tutto ciò che permetteva di superare la forma dello Stato-nazione creando poteri sovranazionali atti a sbriciolare i confini e rendere prassi il libero scambio e la finanza globale. Un tradimento consumatosi difendendo a oltranza ogni forma di immigrazione rendendo omaggio, sempre e ovunque, alla società multietnica, senza voler ammettere che questo termine, in sé, è vuoto: non indica il risultato finale, il segno dominante, il mix di valori che regolano una comunità capace di assorbire flussi d’immigrazione crescenti. “E il tradimento è continuato praticando l’autocolpevolizzazione permanente, un riflesso pavloviano ereditato dall’epoca in cui Noi eravamo l’ombelico del mondo: come se ancora oggi ogni male del nostro tempo fosse riconducibile all’Occidente, e quindi rimediabile facendo ammenda dei nostri errori” come denuncia nel suo pamphlet Il tradimento. Globalizzazione e immigrazione, le menzogne delle élite (Mondadori)- inclusa un’autocritica sul ruolo dei media – Federico Rampini.

L’editorialista de Il Corriere della sera indica le possibili vie d’uscita: “un’economia liberata dai ricatti delle multinazionali e dei top manager; un’immigrazione governata dalla legalità e nella piena osservanza dei nostri princìpi; una democrazia che torni a vivere della partecipazione e del controllo quotidiano dei cittadini; e, infine, un dibattito civile ispirato all’obiettività e al rispetto dell’altro, non ai pregiudizi, all’insulto e alla gogna mediatica dei social”. Concetto ripreso e approfondito anche nel più recente La notte della sinistra. In generale, però, sono anche alcuni politici ad aver tentato di riportare sui vecchi binari la sinistra, tutti, però, hanno dovuto fare i conti con il cortocircuito dei propri sostenitori, che hanno finito con il penalizzarli nella cabina elettorale, o le altre correnti del partito di appartenenza. Discorso valido per Bernie Sanders negli Usa, ostacolato a più riprese nella corsa alle primarie per la Casa Bianca in seno al Partito democratico, per Jeremy Corbin, costretto alle dimissioni da segretario dei laburisti inglesi e dalla deputata tedesca Sahra Wagenknecht la cui formazione Aufstehen nata da una costola movimentista della Die Linke ha avuto vita breve ma che nel suo libro-manifesto Contro la sinistra neo-liberale tradotto in italiano da Fazi delinea una visione radicalmente alternativa, per una sinistra che sia in grado di tornare a rappresentare e a parlare alle classi popolari: un controprogramma fondato su valori non individualistici ma comunitari – tra cui concetti aborriti dai progressisti contemporanei come patria, comunità, appartenenza –, capaci di definire l’identità, non più di una minoranza intellettualista, ma di una maggioranza fatta di individui concreti. E gettare così le basi per la creazione di una società più giusta.

Guardando in casa nostra è lo stesso scenario analizzato da Thomas Fazi e William Mitchell che considerano la rimozione della consapevolezza dello Stato-nazione come sola cornice in cui le masse possano sperare di migliorare le proprie condizioni (Sovranità o barbarie. Il Ritorno della questione nazionale) e da Luca Ricolfi nell’imprescindibile Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi in cui il sociologo individua “ovunque in Occidente un popolo in cerca di protezione dalle conseguenze della crisi e dalle fragilità dello scenario globale mentre la sinistra inevitabilmente impegna le sue energie per sminuire i problemi che gli elettori percepiscono come principali tra i quali: la disoccupazione, le politiche di austerità e l’immigrazione”.

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