Italia, non dimenticarti della guerra economica – (Parte III)

Italia, non dimenticarti della guerra economica – (Parte III)

di Emanuel Pietrobon

Nelle scorse puntate abbiamo parlato del ruolo giocato nelle guerre economiche da corporazioni multinazionali, organizzazioni internazionali, istituzioni finanziarie mondiali e banche multilaterali. Perché regimi sanzionatori ed embarghi potrebbero difficilmente avere successo senza il supporto dei grandi attori non-statuali che plasmano l’economia mondiale: è un dato di fatto. Ora, descritti a grandi linee i lati meno intuitivi della guerra economica, è giunto il momento di scendere nei dettagli e di spiegare in che modo è evoluta negli anni della globalizzazione, dell’interdipendenza e della finanziarizzazione delle economie di tutto il pianeta.

Perché interdipendenza può essere forza, se adeguatamente modellata, ma anche letale debolezza, se eccessiva o raggiunta lasciando senza protezione i settori più vulnerabili del sistema produttivo. Lo stesso discorso vale per l’apertura dei campioni nazionali alle manovre poco limpide degli attori finanziari globali e per la stranierizzazione del debito pubblico; entrambe suscettibili di spianare la strada ad azioni di destabilizzazione finanziaria profondamente distruttive e in grado di impattare grandemente sull’economia reale.

Oggi, però, oggetto della disamina sarà una delle ultime evoluzioni della guerra economica, nonché una delle più perniciose e meno conosciute: i fondi speculativi attivisti (activist hedge fund). Questo tipo di fondo speculativo nasce con uno scopo preciso: il leveraggio strategico delle quote di partecipazione possedute in una corporazione per esercitare una pressione sulla dirigenza mirante al condizionamento della sua politica complessiva e/o al suo indebolimento critico. Il modus operandi è il seguente: dopo aver acquistato una quota di partecipazione, anche relativamente piccola – si parla di numeri da 4-5% –, l’azionista attivista utilizza i diritti (legali e riconosciuti) conseguiti in seguito all’entrata di minoranza per “creare problemi” alla corporazione.

La pressione sulla dirigenza può assumere diverse forme – e tutte sono legali –: risoluzioni degli azionisti, contenziosi, negoziazioni, eccetera. Di solito l’azionista attivista chiede dei cambiamenti all’interno dell’azienda riguardanti la riduzione dei costi (ovvero licenziamenti) e/o l’adozione di nuove strategie globali (magari il disinvestimento da un mercato specifico, cioè la ritirata da un Paese); cambiamenti che la dirigenza è tenuta ed obbligata quantomeno a tenere in considerazione e a discutere. In breve, gli azionisti attivisti sono degli agitatori, o meglio delle quinte colonne, che erodono le fondamenta della corporazione dall’interno nello stesso modo in cui le termiti divorano il legno dei mobili. Il mobile, in questo caso, è la dirigenza, che, un giorno, potrebbe scoprire di non avere più il controllo sulla corporazione. Invero, se un’entità ha al proprio interno un numero nutrito di azionisti attivisti le destinazioni finali non potranno che essere due: autodistruzione o rilevamento da parte di terzi. In ognuno dei due casi, comunque, a perdere è la dirigenza originaria.

Curiosamente, ma non sorprendentemente, la stragrande maggioranza dei fondi speculativi attivisti è localizzata negli Stati Uniti e negli anni recenti il bersaglio di questa costellazione aziendicida è stata l’Unione Europea, o meglio alcune grandi corporazioni aventi sede nel Vecchio Continente, più precisamente in Germania. Altra tendenza non trascurabile riguarda il crescente interesse che questi fondi stanno dimostrando verso debiti sovrani e assetti strategici.

Paul Singer, il pioniere dei fondi speculativi attivisti, nonché il celebre capitalista di ventura del globo, negli anni ha utilizzato il proprio Elliott Fund – legato a doppio filo con la Casa Bianca – per condurre una serie di operazioni sovversive contro stati sovrani, dall’Argentina al Congo, obbligando i governi a ripagare le perdite attraverso la vendita di assetti-chiave e la privatizzazione di campioni nazionali. In breve, questi fondi altro non sono che uno strumento (spesso, ma non sempre, in mano agli stati) con cui vengono portare avanti azioni destabilizzanti nei confronti di attori scomodi o ricchi di risorse da depredare. Queste azioni sono tanto destabilizzanti quanto spaventosamente legali. Ed è precisamente quel manto di legalità e puro affarismo dietro il quale si nascondono i capitalisti di ventura e gli speculatori che tradisce e inganna gli stati e i dirigenti meno maliziosi.

Abbiamo scritto che l’economia di resistenza deve essere basata sulla prevenzione, questo significa che gli addetti alla formulazione delle politiche debbono non soltanto fornire suggerimenti ai capi di Stato su come conseguire l’autosufficienza produttiva nei settori strategici, come ottenere la sicurezza energetica o come adattare in loco modelli di crescita economica e sviluppo testati con successo altrove. No. Essi debbono fare in modo che i capi di Stato comprendano che sicurezza economica e interdipendenza non possono coesistere. Il Cile di Salvador Allende avrebbe potuto vincere l’embargo invisibile se la classe politica non avesse venduto gli assetti strategici alle corporazioni nordamericane e non avesse reso la crescita economica orientata alle esportazioni e dipendente da investimenti esteri e prestiti internazionali – ergo esponendo la valuta nazionale e il debito pubblico a manovre speculative.

V’è un solo modo di raggiungere la sicurezza economica: porre fine agli eccessi della globalizzazione. Questo non significa che un Paese debba cessare di far parte dell’ordine commerciale mondiale o che debba vietare alle corporazioni estere di operare sul proprio territorio. Significa, più semplicemente, che un Paese ha l’imperativo di formulare un piano di contingenza che possa garantire capacità di resistenza e di sopravvivenza nel caso di guerre economico-finanziarie. Significa, in sostanza, che va ridotto il ricorso al capitale straniero – che sia di provenienza sovranazionale o di altre nazioni –, che il portafoglio dei partner commerciali va allargato e diversificato il più possibile così da riorientare l’import-export in caso di urgenza e che, ultimo ma non meno importante, vanno eretti meccanismi di sbarramento a difesa e tutela di tutte quelle imprese vitali per l’apparato produttivo. Imprese che in nessun modo vanno infiltrate dagli azionisti attivisti e che, perciò, richiedono una vigilanza speciale da parte di autorità di controllo e servizi segreti.

Non v’è bisogno di aprire ai fondi speculativi per prosperare nel mercato globale. Si possono formare associazioni temporanee, stabilire collaborazioni apposite in ricerca e sviluppo, importare pratiche dall’esterno, chiedere consulenze ad enti specializzati. Perché l’internazionalizzazione è importante, sì, ma lo sviluppo dell’autosufficienza e l’integrità dei campioni nazionali lo sono di più: sono più che fondamentali. Vigilare sempre su quanto accade nel mondo sregolato dell’attivismo finanziario, dunque, perché la prevenzione è l’unico rimedio possibile attualmente – curare, infatti, una volta perduta (o “suicidata”) una corporazione, potrebbe rivelarsi impossibile.

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