La sfida geopolitica delle nuova economia. TORNA LO STATO AZIONISTA?

La sfida geopolitica delle nuova economia. TORNA LO STATO AZIONISTA?

di Mario Bozzi Sentieri

Dopo la “sglobalizzazione”, la messa in discussione degli ultimi trent’anni, caratterizzati dai mercati aperti e dall’interdipendenza economica, ed il reshoring, cioè il ritorno delle produzioni industriali nei Paesi d’origine delle aziende, ecco arrivare l’interventismo pubblico in economia, al punto che si comincia a parlare di “nuovo capitalismo di Stato”.

Passata l’onda lunga delle privatizzazioni, iniziate nei primi Anni Novanta, pare essere un vecchio ricordo l’illusione che, caduto il Muro di Berlino e venuta meno la vecchia politica dei blocchi, fosse ineluttabile avviarsi verso un’era di pacificazione globale, al punto da parlare – con Francis Fukuyama – di “fine della Storia”, nel segno di un progresso tecnologico e produttivo a base capitalista e di uno Stato liberal-democratico impegnato a realizzare la partecipazione politica, l’avanzamento dei ceti medi e l’uguaglianza dei diritti.

Non è proprio andata proprio così. Come ha scritto recentemente Ferruccio De Bortoli: “Il liberismo vincente ha indotto i Paesi occidentali a credere, dopo il crollo del muro di Berlino, che la sola apertura dei mercati fosse una garanzia di affermazione delle istituzioni democratiche persino in Russia. Errore tragico, visto ciò che abbiamo sotto gli occhi. Tra i perdenti occidentali della globalizzazione (il ceto medio e la classe operaia) è cresciuto un giustificato sentimento di rigetto nei confronti della grande finanza e delle multinazionali, vere vincitrici della gilded age del capitalismo di fine secolo scorso, non privo di conseguenze politiche”.

L’emergere  di una sfida globale a livello di macro aree continentali sposta ovviamente le prospettive ed i rapporti di forze, depotenziando il ruolo dei privati e le leggi di mercato. Perciò avanza la geopolitica. E quindi si riaffermala la funzione dei singoli Stati.

L’esempio più grande e significativo ci viene dagli Stati Uniti. Con Donald Trump raffigurato come il nuovo “investitore attivista” della corporate America. E’ quanto ha scritto  il “New York Times”, sottolineando che il tycoon sta lavorando  perché il governo acquisisca partecipazioni nelle aziende statunitensi e una percentuale dei loro ricavi, modellando un capitalismo di Stato simile a quello di altre parti del mondo.

Il Presidente degli Stati Uniti ha infatti inserito il governo nelle aziende statunitensi “in modi straordinari”, tra cui l’acquisizione di una partecipazione in US Steel e la richiesta di una quota dei ricavi di Nvidia e Advanced Micro Devices dalla Cina. Il mese scorso, inoltre, il Pentagono ha annunciato l’acquisizione di una quota del 15% in MP Materials. Da ultimo, Intel ha accettato di consentire al governo degli Stati Uniti di acquisire una quota del 10 percento della sua attività, per un valore di 8,9 miliardi di dollari.

Questi sviluppi, sottolinea il “New York Times”, “potrebbero annunciare un passaggio dal tanto decantato sistema di libero mercato americano a uno che assomiglia, almeno in alcuni aspetti, a una forma di capitalismo gestito dallo Stato più frequentemente riscontrabile in Europa e, in misura diversa, in Cina e Russia”.

Visti i contesti internazionali ed i rapporti di forza,  l’interventismo pubblico appare sempre più una  necessità o comunque un’opzione da non sottovalutare.  Senza – sia chiaro – rincorrere visioni assolutistiche, ma delineando ambiti d’interesse e d’intervento sulla base di una corretta valutazione del ruolo dello Stato e ritrovando una  vocazione d’indirizzo, in grado di programmare le grandi scelte strategiche nazionali in campo economico e sociale, attraverso un’attenta politica previsionale, unita alla partecipazione, sulla base delle competenze,  delle categorie produttive.

La prima necessità è ripensare un progetto aggiornato d’intervento pubblico, magari attraverso un vero e proprio Istituto nazionale, capace di costruire una nuova stagione di crescita, ricapitalizzando le imprese e favorendo investimenti in innovazione. Lavorando – in definitiva – ad un futuro, che – ci dicono gli istituti di ricerca – sappia, da subito, fare i conti con la logistica, la portualità, il 5G, l’intelligenza artificiale, l’energia, i sistemi d’arma. Non dunque uno Stato mero “salvagente” per le aziende in crisi.

Ulteriore fattore essenziale è quello del lavoro. Costruire modelli partecipativi all’interno delle aziende “statalizzate” e favorire la partecipazione agli utili può essere l’ulteriore “scommessa” per fare del nuovo interventismo pubblico un esempio d’integrazione sociale, una reale alternativa tra i vecchi modelli l’impronta liberista e lo statalismo d’annata.

Proprio perché non ci appartiene l’idea che il sistema sociale e quindi quello produttivo sia stretto in angusti ambiti economici, siamo convinti che, ancora oggi, il fenomeno “produzione” sia un fattore propulsivo di tutta la società, in ragione della crescita dei lavoratori, della loro assunzione di nuove responsabilità, anche dirigenti, all’interno delle aziende e nella società.

Il confronto sociale, che non deve necessariamente sfociare nel conflitto, va visto in questa ottica: strumento di maturazione, di presa di coscienza, di partecipazione reale, in grado di fare ritrovare il valore della “conquista”. Perciò c’è bisogno di un nuovo dinamismo sociale. Di un dinamismo che rimetta in moto il confronto sulle modalità di produzione, sulla qualità dei prodotti, sui salari, sulla creazione e circolazione delle classi dirigenti, sull’essenza stessa della borghesia produttiva.

Ai “borghesi smemorati” va chiesto di ritrovare la  fantasia avventurosa, l’attivismo, la capacità  di immaginare il futuro, la consapevolezza  della realtà, la passione, lo spirito di sacrificio, attributi che furono dei loro avi. Ai “borghesi avidi” il cui fine ultimo è l’arricchimento a tutti i costi, va posta innanzi quell’etica del lavoro e del rigore che un tempo dava forma ai comportamenti delle classi dirigenti.

Su questi crinali la sfida geopolitica può essere vinta, ritrovando il valore di un confronto adeguato alle trasformazioni in atto e a quelle che verranno. E dunque: programmazione, management di livello (ma ben consapevole del proprio ruolo sociale), partecipazione del lavoratori. E’ questa la grande sfida che sta di fronte all’Italia e non solo. Una sfida da cui passa il vero rinnovamento nazionale ed una risposta organica e duratura adeguata a questi anni “di passaggio”. Per ritrovare le ragioni comuni di uno sviluppo di medio-lungo periodo, reale e dignitoso. Per incarnare finalmente una concreta consapevolezza identitaria ed interventista, senza la quale la nostra società rischia di illanguidire e morire, schiacciata dalle nuove dinamiche internazionali e dall’emergere dell’idea dello Stato azionista, che si pensava definitivamente tramontata.

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