di Mario Bozzi Sentieri
L’idea appartiene al futurismo e al suo fondatore, Filippo Tommaso Marinetti: declinare arte e lavoro, fabbrica e creatività, rompendo vecchie cesure ed immaginando sintesi inusuali. Anche tra Lavoro e crescita spirituale, ridando finalmente una rappresentazione simbolica al fare quotidiano. Non certo – sia chiaro – per coprire contraddizioni e limiti dell’attività produttiva, ma per sublimarli, al punto da ispirare chi ogni giorno lavora.
“Il cantiere è il cervello / che matura / il poema universale / della gente futura” – scrive (1912) il poeta futurista Luciano Folgore nei versi Al cantiere. La fabbrica, luogo-simbolo del lavoro industriale, trova visibilità e rappresentazioni artistiche, mentre l’”artecrazia”, la supremazia dell’arte su tutte le manifestazioni dell’attività umana, celebra la liberazione – parole di Marinetti – “dalla massacrante monotonia dell’identico lavoro grigio e dell’identica domenica vinosa” e contro l’agonizzante “quotidianismo uguagliatore”.
A cavallo tra la metà degli Anni Trenta e la fine gli Anni Cinquanta del ‘900 – su un altro piano – è Adriano Olivetti a teorizzare e a realizzare l’idea di una fabbrica inserita nella vita sociale e culturale dei territori, individuando il nesso, esistenziale, produttivo e culturale, fra fabbrica e comunità. “La fabbrica – dice Olivetti – non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”.
Di questa sensibilità è, oggi, significativa testimonianza un modello di imprenditorialità ispirato alla Corporate Cultural Responsability, che vede le imprese motore di crescita non solo economica, ma anche civile, sociale e culturale, con una legame alla società e al territorio (quello in cui l’impresa ha i propri stabilimenti) piuttosto unici nel sistema dell’arte di oggi.
La Corporate Cultural Responsibility rappresenta un’opportunità per le imprese che già investono in Cultura, perché avranno la possibilità di valorizzare ulteriormente il proprio impegno. È uno stimolo per le altre aziende, che potranno scegliere di includere anche iniziative culturali nel perimetro delle proprie strategie di sostenibilità. È una ulteriore garanzia per le Istituzioni, che potranno contare su collaborazioni strategiche, durature, di ampio respiro, al servizio della comunità.
Nessun lampo futurista – sia chiaro – ma un asset strategico fondamentale per la crescita educativa, culturale e sociale del Paese, ora sintetizzato nel libro Il Segno dell’Arte nelle Imprese. Le collezioni corporate italiane per l’arte moderna e contemporanea, un progetto di Confindustria, con il patrocinio del Ministero della Cultura e il sostegno di Intesa Sanpaolo, edito da Marsilio Arte, a cura di Ilaria Bonacossa con Marianna Agliottone, Costantino d’Orazio e Marilena Pirrelli. Cinquantasette collezioni corporate di arte moderna e contemporanea, costruite da imprese per lo più medie e piccole, declinano nel presente le due identità di arte e di impresa: un racconto che testimonia la passione per l’arte di imprenditrici e imprenditori e il loro desiderio di sostenere la produzione artistica, italiana e internazionale, sia di artisti già conosciuti e affermati che di quelli emergenti.
L’idea di collezionismo alla base non è mai di tipo conservativo, ma attivo, animato da senso civico, coinvolto nella costruzione della società, nel sostegno dell’arte e degli artisti, la cui ricerca è necessaria quanto quella scientifica, poiché ci permette di meglio comprendere il mondo in cui viviamo e i suoi possibili sviluppi in futuro.
“Questo libro – scrive Ilaria Bonacossa – nasce per mettere in luce il ruolo delle imprese italiane nella produzione culturale contemporanea. Le testimonianze di esperti del settore e le interviste raccolte, grazie a Confindustria, di ciascuna impresa fanno emergere la passione per l’arte e il desiderio di sostenere la produzione artistica, la contemporaneità e le sue trasformazioni da parte degli imprenditori e delle imprenditrici di tutta Italia”.
In Italia le potenzialità non mancano: “l’industria dell’arte in Italia ha un grande potenziale economico che per essere efficientemente valorizzato richiede la promozione degli investimenti delle imprese in arte e cultura attraverso la definizione di strumenti regolatori efficaci e stabili, in linea con quelli degli altri Paesi leader a livello internazionale. Sotto questa prospettiva è auspicabile un intervento del legislatore che definisca e disciplini le collezioni d’arte di impresa, attraverso disposizioni specifiche in materia di reddito d’impresa con riferimento all’acquisto e alla vendita di opere d’arte”, spiega nel libro e nel suo intervento Antonio Alunni, presidente del Gruppo Tecnico Cultura di Confindustria. Il mecenatismo delle imprese, attraverso l’acquisizione o commissione di opere, è dunque uno strumento fondamentale di sostegno all’intero sistema dell’arte e del mercato italiano dell’arte e come tale andrebbe agevolato.
Significativo, in questa ottica, anche l’allegato “Arte & Imprese”, ora in distribuzione con “Il Giornale dell’Arte”, che guarda all’esperienza spagnola, riscopre la “Civiltà delle Macchine”, una rivista che già dagli anni ’50 univa la cultura umanistica a quella tecnologica ed offre consigli fiscali, legali, di gestione e di comunicazione, a chi con la propria azienda vuole approcciarsi all’arte.
Il tema è rilevante e va divulgato, ma – ci sia permessa una puntualizzazione – non può essere visto in un’ottica meramente economica, legata agli investimenti, né puramente estetica, né finalizzata solamente a sostenere la produzione artistica.
In una logica “olivettiana” l’arte può svolgere una funzione fondamentale nella misura in cui l’armonia produttiva è il segno estetico del lavoro e dell’economia, realizzandosi nelle funzioni dello Stato Sociale, nel rapporto fra impresa e territorio, in una matura declinazione tra cultura industriale e cultura più vasta, in una organica politica partecipativa, dentro e fuori delle aziende. Al centro la Bellezza ed una più matura sensibilità estetica, a cui richiamare tutto il corpo sociale.
Scriveva Olivetti (in Città dell’uomo, 1960): “E’ superfluo per me l’insistere sulla influenza spirituale della Bellezza. Certamente esiste ovunque in Europa una grande vocazione e capacità artistica, ma questa sembra avulsa dalla via delle comunità nazionali, giacché la comprensione artistica sembra essere il privilegio di una piccola classe”. Ritrovare e promuovere la forza creatrice dell’Arte e della Bellezza può aiutare la crescita sociale e culturale delle comunità.
Senza barriere o preclusioni “di classe” però, trasformando la passione per l’arte delle imprese in uno strumento essenziale di inclusione sociale, capace di coinvolgere non solo gli imprenditori ma il più vasto mondo dei lavoratori, con una visione all’altezza della sfida postindustriale ed una particolare attenzione ai luoghi della produzione, “recuperati” all’Arte e alla Bellezza e progettati in ragione di chi in essi vive il tempo del lavoro.
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