Di Cristian Leone
Di Antonio Pennacchi ci mancherà la penna ma, ancor di più in questi tempi oscuri, la sua capacità di andare controcorrente. Pennacchi è stato un intellettuale particolarmente eclettico che, nel corso della sua vita, ha abbracciato le principali eresie del Novecento, passando dal Msi al Pci. Ricordato principalmente per il “fasciocomunista” e il romanzo vincitore del premio Strega “Canale Mussolini”, in realtà, Pennacchi, non si è occupato solo delle bonifiche pontine e nemmeno esclusivamente di Serpieri ma è andato oltre, lì dove molti storici di professione non sono arrivati: l’assalto al latifondo. Il vero capolavoro dello scrittore di Latina è senza dubbio “Fascio e martello”. Questo libro, edito da Laterza, non è solo un viaggio tra le città del duce, come indica il sottotitolo, ma ripercorre soprattutto la politica agricola del fascismo, interpretato come un fenomeno popolare e antiborghese. Soffermandosi particolarmente sull’assalto al latifondo, Pennacchi ripercorre la politica agricola del regime che definisce, con un tono provocatorio, “dittatura del proletariato contadino”. Secondo Pennacchi la base di massa del fascismo risiedeva nei mezzadri e l’intera politica agricola del regime era improntata sulla funzione sociale della proprietà privata, ed è proprio questo l’elemento fondamentale che allontana il fascismo da qualsiasi interpretazione borghese. L’intento di Mussolini era quello di frazionare il grande latifondo, mediante libero mercato ma soprattutto tramite l’esproprio, per creare tante piccole proprietà private. Pennacchi sintetizza così questa sua interpretazione: «Due (o uno che sia) milioni di ettari che passano, obtorto collo, dagli agrari e dal latifondo alla piccola proprietà contadina non costituiscono – che io sappia – una consolidata prassi piccolo-borghese». Pennacchi si è sostituito agli storici di professione i quali, per pregiudiziali ideologiche e politiche, tendono a sottovalutare la politica agraria del regime nella seconda metà degli anni Trenta. Certo, Pennacchi non è uno storico e a volte fornisce notizie imprecise e approssimative come, ad esempio, sul numero troppo gonfiato dei due milioni di ettari passati dal grande latifondo alla proprietà privata, tuttavia, il suo studio deve farci riflettere sull’importanza di una legislazione agraria che avrebbe potuto risolvere tanti problemi del dopoguerra e che invece è rimasta incompiuta, sacrificata in nome dei grandi interessi economici.
La bonifica integrale e la svolta di Tassinari
La bonifica integrale, come scrive Zaganella, rappresenta una norma che «Per la prima volta in Italia affermava una concezione giuridica volta ad assicurare l’integrità dell’azienda familiare e limitare il diritto di disporre della proprietà nell’interesse sociale». Nel 1937, con Tassinari, nasce un nuovo modo di concepire la bonifica, diverso da quello “liberale” elaborato dal suo predecessore. Mentre la bonifica di Serpieri, incentrata sull’importanza del consorzio (“con i proprietari e non contro di essi” ), mirava a tutelare la libertà d’azione privata dall’invadenza dello Stato, quella di Tassinari, basata sugli enti statali (enti di colonizzazione basati su modello dell’Onc), tende ad accentuare la funzione sociale del fascismo stabilendo «un intervento più deciso nei confronti dei proprietari terrieri allo scopo di creare una moltitudine di piccole proprietà coltivatrici laddove dominava il latifondo». Si ha, inoltre, un rafforzamento del controllo statale sui consorzi, come si evince dalla sua nuova composizione e dalla legge del 5 settembre 1938, secondo la quale i consorzi agrari passano da società commerciali a enti morali. Il nuovo corso di Tassinari collega direttamente alla bonifica integrale il problema del latifondo, che avrebbe dovuto essere risolto a favore della costituzione di piccole proprietà di coltivatori diretti.
Diverso è anche l’approccio tecnico alla bonifica, mentre Serpieri operava su grandi aree, Tassinari concentra l’intervento su zone ben determinate ad economia latifondistica. Tra la fine del ’38 e gli inizi del ’39 vengono varati importanti interventi di colonizzazione e di bonifica, non solo in Sicilia, ma anche nel Tavoliere delle Puglie e nella piana del Volturno in Campania. Nel Tavoliere delle Puglie la superficie interessata alla riforma ammonta a 173.000 ettari. L’intervento prevede il frazionamento della grande proprietà per consentire la costituzione di unità aziendali con una superficie massima di 150 ettari ciascuna, creando le premesse per il frazionamento della grande proprietà, e preparare la via affinché si formi una nuova grande massa di mezzadri, di piccoli affittuari ed, infine, di piccoli proprietari coltivatori. Il numero di ettari interessati alla riforma è davvero importante se si considera che la riforma agraria del secondo dopoguerra tocco poco più di 780mila ettari di terreno.
L’assalto al latifondo
Il problema siciliano è presente nell’agenda dei politici italiani sin dall’epoca liberale. Tuttavia, né Crispi nel 1894, né Lorenzoni nel 1911, né Pantano nel 1926, riescono a risolvere la questione. La superficie interessata dall’assalto al latifondo è di ben 500.000 ettari. Il piano prevede la creazione, su tale area, di 20.000 nuove unità poderali nell’arco di un decennio.
Per finanziare questa manovra vengono stanziate considerevoli somme di denaro: un miliardo di lire da parte dello Stato e un miliardo e mezzo dai consorzi privati. I latifondisti vengono obbligati per legge a frazionare e a dividere, mettere a coltura e appoderare le loro sterminate proprietà. Scrive Pennacchi in “Fascio e martello”: «Ogni 25 ettari al massimo, deve esserci una casa colonica, un podere, un contadino con la sua famiglia di almeno 7-8 persone, dotazione di bestiame bovino-equino e tutto quello che serve. Chi non obbedisce viene espropriato». Diversamente dalla prima fase della bonifica integrale, l’accresciuta ingerenza economica dello Stato è testimoniata dal fatto che l’Ente per la colonizzazione del latifondo siciliano era dotato del potere di esproprio anche in mancanza di inadempimento da parte dei proprietari. Nonostante il conflitto bellico l’assalto al latifondo continua senza sosta tanto che, come ricorda Pennacchi, quando gli americani sbarcarono in Sicilia invece dei soldati trovarono i muratori. Per quanto riguarda la realizzazione dell’opera, alla fine del 1940, secondo Pennacchi, vengono «costruiti 8 borghi e 2507 case coloniche». Per Zaganella, data la guerra, risulta impossibile valutare esattamente i risultati dell’iniziativa. Secondo De Felice, al 31 agosto 1942 vengono costruiti 11 borghi, 3.034 case coloniche e risultano immesse sulle terre colonizzate 1.634 famiglie per un totale di 11.794 persone. L’assalto al latifondo viene apertamente osteggiato dai grandi proprietari terrieri, dai gabellotti e da alcuni membri dello stesso Pnf, tra cui il ministro dei lavori pubblici Adelchi Serena. Il popolo siciliano, invece, accoglie con giubilo la notizia: «A Mussolini giunsero ben 125 telegrammi e comunicazioni che descrivevano una popolazione contadina in festa”».
Questa frase, pronunciata dall’ottantaseienne Totò Militello, abitante di Borgo Riena, rappresenta una testimonianza diretta della recezione popolare dell’ assalto al latifondo: «Mussolini obbligava i proprietari a fare le case coloniche, sennò ci levava il terreno e lo dava ai poveri». Totalmente, secondo dati ministeriali, si calcola che le terre realmente bonificate e “soddisfacentemente trasformate” ammontano a 895.319 ettari. La spesa finanziaria complessiva per tali interventi, nell’intero Ventennio, ammonta invece a 6 miliardi e 579 milioni di lire. Cifra che testimonia l’imponente svolta interventista dello Stato, se la si paragona ai 720 milioni spesi dai governi liberali tra il 1870 e il 1922.
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