Francesco Carlesi
La recente «provocazione» (come l’ha lui stesso definita in un ricco e interessante articolo uscito sul «Corriere della Sera») del ministro Sangiuliano sulla figura di Dante, al di là delle polemiche e dello scalpore mediatico non sempre giustificato, ci offre una salutare occasione per rilanciare il dibattito, il ricordo e gli studi in merito a questa figura complessa e irripetibile, che è stata definita da Marcello Veneziani «nostro padre», uno dei cardini fondamentali per nascita della lingua e della Nazione italiana. L’intellettuale ha scritto in merito: «a lui dobbiamo la lingua, il racconto, la matrice, la visione. L’Italia intesa più che Nazione, come Civiltà. L’identità italiana secondo Dante, è nazionale e universale, ben delineata nei suoi confini geografici, marini e alpini, ma espansiva nelle sue linee spirituali». E ancora: «Dante generò un’aspettativa d’Italia che altri scrittori – da Petrarca a Machiavelli, da Ariosto ad Alfieri, da Foscolo e Leopardi – poi coltivarono nei secoli. L’Italia è una nazione culturale, nata non con la forza delle armi ma dell’arte e della poesia». Non stupisce dunque che chi vuole improntare al patriottismo il suo impegno politico lo ritenga un pilastro da riscoprire, contro esterofilia, “cultura della cancellazione” e retaggi marxisti del mondo progressista.
La vita di Dante
Dante fu in tutto e per tutto un uomo del Medioevo, epoca che proprio dal mondo del “pensiero unico” politicamente corretto è stata troppo spesso definita età “oscura”, liquidata con sufficienza senza gli adeguati strumenti per comprenderla. Quell’età di mezzo fu ricca di risvolti dolorosi e violenti, ma anche di grandi momenti spirituali e artistici, di cui un proprio un gigante della letteratura come Dante è uno dei simboli più illuminanti. Il Poeta nacque a Firenze nel 1265 da una famiglia della piccola nobiltà cittadina, anche se l’appartenenza degli Alighieri all’aristocrazia è stata messa in dubbio da alcuni storici. Lo stesso Dante da giovane criticò il concetto di nobiltà, ritenendo che essa potesse avere senso solo in base alla virtù, non al sangue, come già aveva espresso il suo maestro Brunetto Latini. In futuro, nella Commedia, rivendicò invece le sue radici nobili descrivendo le figure dei suoi avi nell’incontro con Farinata (Inferno, canto X), pur senza perdere una punta di ironia sul tema. Era il Dante che, costretto all’esilio, trovava ospitalità nelle più prestigiose corti della nobiltà italiana, dagli Scaligeri a Verona ai Da Polenta a Ravenna. Dal 1295, infatti, il fiorentino aveva intrapreso con convinzione la strada dell’impegno politico. Dopo anni di raffinato e “multiforme” poetare, segnato dai temi dell’amore e dell’itinerarium mentis in Deum, quell’afflato religioso che èla cifra stessa di quei secoli, egli si iscrisse a una corporazione, entrando nell’Arte dei Medici e Speziali (filosofia e scienze sociali erano intrinsecamente legate all’epoca, come ricorda Guido Baldi, autore di Dal testo alla storia dalla storia al testo, uno dei più fortunati manuali di letteratura nazionali).
Il fiorentino divenne ben presto una figura di spicco della scena comunale e ricoprì cariche di prestigio, fino a essere eletto fra i Priori, la suprema magistratura cittadina. Firenze all’epoca era dominata da Guelfi, i quali però erano divisi in due fazioni: Bianchi e Neri. Se i primi, per cui Dante parteggiava (pur da una posizione moderata e volta alla pacificazione), si battevano per la libertà della città, i secondi appoggiavano sempre più apertamente la politica di Bonifacio VIII, il quale mirava a imporre il dominio della Chiesa sulla Toscana. Nel 1301 questi ultimi riuscirono ad impadronirsi di Firenze, favoriti dal legato pontificio Carlo di Valois inviato con il pretesto di agire da “paciere” tra le due fazioni. Cominciò una serie di persecuzioni nei confronti dei Bianchi, a cui Dante sfuggì in quanto inviato a Roma come ambasciatore. Appreso di essere stato condannato con l’accusa di baratteria, cioè corruzione, non si presentò per discolparsi, venendo colpito da un’altra sentenza che lo condannava al rogo. Cominciava così l’esperienza dell’esilio.
Dante politico
I suoi circa vent’anni lontano da Firenze gli offrirono l’occasione di osservare le lacerazioni delle guerre civili tra città italiane, il predominio del denaro e dello spirito affaristico nelle classi dirigenti della penisola e infine il triste stato di una Chiesa “mondanizzata” e corrotta, i cui membri assomigliavano a «lupi rapaci». Si convinse che solo la presenza di un imperatore, supremo regolatore della vita civile, avrebbe potuto obbligare il papato a tornare alla sua missione spirituale. Il suo impegno politico si fondeva con l’etica, si basava su radici profonde che arrivavano fino alla Politica di Aristotele per volgersi al patriottismo e alla salvaguardia delle autonomie nel quadro di ordine superiore. Ernesto Giacomo Parodi, in una bellissima opera collettanea del 1921 intitolata Dante e l’Italia (nella quale figura anche un contributo di Giovanni Gentile) scrisse che la «sua gelosa cura di salvaguardare, di fronte alla somma e alla sacra autorità dell’impero, le autonomie comunali, ci attesta di che sincero e sicuro amore per esse fosse caldo il cuore di questo esule, che pur ne aborriva le furiose lotte civili e consacrava le sue austere vigilie a scoprire un ordinamento del mondo, capace di conciliare insieme le due dee, da troppo tempo discordi, pace e libertà».
La sua vocazione profetica, talvolta pedantescamente moralista, sarà una delle spinte principali che daranno vita alla Commedia, la quale risentì ovviamente dei valori e delle esperienze del Poeta. Già il Convivio, che segnò il passaggio dal rarefatto mondo dello stilnovismo a quello del cantor rectitudinis (cantore della virtù), come lui stesso amava definirsi, traeva spunto dalla volontà di difendersi dalle accuse ingiuste mosse a suo carico dai concittadini che lo avevano esiliato. Conservatore, Dante si scagliò contro i ceti emergenti della nuova realtà mercantile, la «gente nova e i subiti guadagni», che ai suoi occhi stavano distruggendo il passato feudale e cortese. L’opera, primo esempio di vera prosa volgare italiana, è importante anche perché rivolta apertamente non alle classi dirigenti «avide e corrotte» del tempo, ma alla “vera” nobiltà incarnata dagli uomini onesti, virtuosi e disinteressati. Il fine ultimo, che ritroviamo anche nel De Monarchia, era quello di una restaurazione dell’autorità imperiale che riportasse la pace, la giustizia, il rispetto della legge e i buoni costumi in un mondo corrotto e dilaniato dalle guerre civili. Questa idea di renovatio imperii (che lo portò a incontrare l’imperatore Arrigo VII verso cui nutriva forti speranze) e il suo avvicinamento agli esuli ghibellini nel tentativo di tornare a Firenze, porteranno Foscolo a definire Dante «il ghibellin fuggiasco».
«La Patria si è incarnata in Dante»
Come ricorda ancora Baldi, l’idea del Poeta era che i rapporti tra imperatore e papa avrebbero dovuto armonizzarsi. Entrambi derivati da Dio, seguivano però due linee d’azione diverse: l’Impero aveva per fine la felicità dell’uomo in questa vita, la Chiesa invece il raggiungimento della felicità della beatitudine eterna. Una complementarietà espressa nell’idea dei «due soli», che troviamo in una terzina del Purgatorio: «Soleva Roma che ‘l buon mondo feo/due soli aver, che l’una e l’altra strada/facean vedere, e del mondo e di Deo» (canto XVI, vv.106-108). La Commedia si configura dunque come un viaggio allegorico verso la redenzione, colmo di significati che hanno impegnato decine di studiosi illustri (come Vico, De Sanctis, Croce e Spitzer) e ancora continuano a farlo. Pur caratterizzata da toni cupi, pessimistici e apocalittici, nell’opera si respira anche libertà, sete di conoscenza e speranza di un riscatto per l’umanità. Questo capolavoro potente, intriso delle passioni e delle pulsioni spirituali, filosofiche e politiche di Dante e del suo tempo, non smette ancora oggi di colpire al cuore. La continua correlazione con un piano divino ce lo fa apparire così lontano, inafferrabile eppure così affascinante. La Commedia rappresenta uno dei passi più importanti per la costruzione dell’Italia, quella comunità di cui all’epoca di Dante esistevano solo le «membra» (rappresentate dagli intellettuali sparsi per la penisola, spiega il Vate nel De Vulgari eloquentia) e che nei secoli riuscì a trovare forma, anche grazie al fondamentale contributo di questo Poeta fiorentino. Non è un caso che Mazzini, protagonista del Risorgimento, scrisse su Dante uno delle suo opere giovanili, riconoscendo in lui proprio il padre e il faro dell’Italia: «La Patria s’è incarnata in Dante. La grande anima sua ha presentito l’Italia iniziatrice perenne di unità religiosa e sociale d’Europa: l’Italia angiolo di civiltà alle nazioni, l’Italia come un giorno vedremo». E noi oggi, nani sulle spalle di giganti, sogniamo ancora di vederla.
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