di Filippo Del Monte
Il 2021 è per certi versi il nuovo “anno zero” dell’economia italiana che, con la crisi pandemica, ha il tessuto produttivo nazionale da ricostruire rispondendo tanto alle esigenze della grande industria quanto a quelle delle piccole-medie imprese che di quel tessuto sono l’impalcatura.
L’opportunità di ricostruire la produzione nazionale secondo i canoni di un nuovo industrialismo sostenuto da politiche ambientali consapevoli e non schiave dell’ambientalismo militante ed ideologico esiste e bisogna coglierla.
Il sociologo e politologo laburista britannico Anthony Giddens nel suo libro “Ecologia politica” (Feltrinelli, 1987) ha mosso una dura critica alla logica che aveva animato l’industrialismo nel corso del ‘900 – ma di fatto fin dalla seconda rivoluzione industriale del XIX secolo – scrivendo che “per una sorta di logica intrinseca lo sviluppo industriale spazza via tutto ciò che incontra davanti a sé” mettendo in secondo piano aspetti fondamentali per la vita di un territorio come la produzione agricola ed il turismo.
Lo sviluppo industriale italiano dal “boom economico” in poi ha sostanzialmente risposto alle logiche stigmatizzate da Giddens; interi territori l’impianto di industrie lo hanno anzitutto subìto e, nella pura logica da “economia coloniale di transizione” che ha visto aree agricole trasformate in distretti industriali, le classi dirigenti locali nulla hanno potuto di fronte alla delocalizzazione ed alla crisi che ha colpito il comparto industriale nei primi anni del XXI secolo lasciando come strascico la crisi sociale-occupazionale ed i problemi ambientali con i quali vaste aree del Paese ancora fanno i conti.
Tuttavia una soluzione c’è e si chiama “economia circolare”, dunque la capacità di “mettere a sistema” le eccellenze produttive dei nostri territori favorendo lo sviluppo di quel “Sistema Italia” di cui tanto si parla ma che non ha mai, realmente, preso forma.
E la “circular economy” non può che essere sposata da chi si definisce “ambientalista consapevole” e dunque sostenitore di un nuovo industrialismo che unisca le tre parole-chiave di ricerca, innovazione e sviluppo nel nome dell’eco-sostenibilità.
Ci sono territori che sono stati devastati dalle vecchie logiche industriali il cui unico risultato tangibile è stato l’alto livello d’inquinamento con i conseguenti rischi e problemi per la salute; questi territori vanno riqualificati ma non destrutturando quegli impianti industriali, magari di valenza strategica, che hanno resistito alla crisi e si sono adeguati, ma favorendo – e stavolta davvero – la bonifica dei terreni e la nascita di nuove filiere produttive, ad esempio quella della riconversione dei rifiuti organici in risorse.
Un processo di questo tipo non può iniziare senza l’avallo della politica nazionale e locale cui spetta il compito di determinare gli indirizzi di questa nuova politica industriale “green”: il ruolo di uno Stato forte si esplica nel controllo e nella repressione delle irregolarità, non nel vietare a prescindere qualunque tipo d’investimento.
Chiaramente all’apparato politico-amministrativo spetta anche fornire i servizi essenziali agli investitori sotto il profilo logistico-infrastrutturale. Questo apre anche un altro fronte di discussione importante che è legato allo sviluppo delle aree interne (che coprono circa il 60% del territorio nazionale) ed in particolare dei cosiddetti comuni-polo, i quali rappresentano potenzialità inespresse prima ancora che aree problematiche.
Le riflessioni sul tema si sono sviluppate a partire dagli anni ’60, basti pensare agli studi sull’evoluzione del concetto di “centro storico” dell’ambientalista Antonio Cederna, ed arrivano ad oggi dove emerge la necessità di trovare la connessione tra nuovo industrialismo e piani di sviluppo delle aree interne che proprio negli investimenti dell’economia circolare ha il suo “quid” e dunque la soluzione ad un problema tutto italiano che, per fattori geografici e gap ormai consolidati, è ormai di natura strutturale.
Sostenere soluzioni neo-industrialiste implica anche un problema di tipo politico con il tradizionale ambientalismo. Nel corso degli anni infatti l’ambientalismo radicale ha puntato il dito contro gli industriali sciorinando slogan “green vs grey” e differenziando modelli di sviluppo che dovrebbero invece essere sincretici.
I moderni canoni dell’industria puntano ad essere sempre meno invasivi sugli equilibri ecosistemici dei territori sui quali insistono gli impianti produttivi poiché la salvaguardia dell’ambiente conviene anche agli investitori. Ammesso che gli imprenditori siano “antropologicamente” senza scrupoli, sarebbe la “ferrea legge” del profitto a spingerli verso le garanzie ambientali.
Il messaggio subliminale degli ambientalisti “classici” è vietare gli investimenti poiché è meglio bloccare ciò che non si può controllare. Una concezione senza dubbi di tipo “nimby” che impedisce lo sviluppo dei territori ed annichilisce il decisionismo politico facendo piombare governi ed amministrazioni locali nel limbo del “discussionismo” tipico di certe associazioni e comitati civici che attualmente dominano il dibattito pubblico sul tema.
L’ambientalismo consapevole deve invece garantire la semplificazione burocratica agli investitori, la fine dei vincoli politico-ideologici agli investimenti ed il controllo ferreo sulla regolarità dei processi produttivi e di gestione. Solo così si potrà dare all’apertura di nuovi mercati una funzione “nazionale” e “comunitaria” garantendo al contempo la difesa dell’ambiente secondo gli standard del nostro secolo.
L’ambientalismo consapevole non è espressione del liberismo rapace ma lo strumento per incidere fattivamente sul processo di ricostruzione dell’economia italiana e quindi sulla produttività dei territori.
È una scelta intelligente ma anche, visti i tempi, obbligata. L’industria italiana infatti ha la necessità storica di svincolarsi da alcune sue caratteristiche che ne fanno un mero – per quanto forte – strumento di trasformazione di materie prime e prodotti altrui. Già negli anni ’30 l’economista d’estrazione cattolica (e Ministro per gli Scambi e Valute dal 1937 al 1939) Felice Guarneri aveva evidenziato, nell’ambito di una analisi più generale sul ruolo ricoperto dalle questioni economiche nell’ambito della politica estera dell’Italia giolittiana e fascista, le caratteristiche strutturali dell’industria nazionale valide ancora oggi. Anzi, il contesto del mondo globalizzato unito allo “stato permanente d’eccezione” determinato dall’emergenza pandemica (socio-economica prima che sanitaria) ha reso ancor più attuale l’analisi di Guarneri.
L’economista lombardo ha scritto: “Dai tempi dell’unificazione nazionale ad oggi l’Italia ha sempre avuto organicamente un’economia nazionale molto delicata. La sua economia dipende in massimo grado dal mondo esterno ed è esposta, più di ogni altra, agli alti e bassi della situazione internazionale oltre che alle conseguenze delle iniziative prese dagli altri stati: ed è quindi facilmente soggetta a ripercussioni di vario genere. È un’economia il cui segno distintivo è dato da un permanente squilibrio tra le forze del lavoro disponibili ed i mezzi necessari per un loro valido impiego”.
Ora il problema fondamentale che Guarnieri evidenziava era l’impossibilità di attuare correttivi per questo squilibrio che non fossero quelli dell’espansione all’estero e del sostegno statale all’industria pesante; oggi, assieme alla necessità di dare al Paese una politica estera capace di conquistare nuovi mercati (o riconquistare quelli perduti e che assicuravano risorse atte a garantire la produttività delle industrie di trasformazione, ad esempio la Libia) nel “Mediterraneo allargato”, la strada da intraprendere per ridurre la distanza tra forze e mezzi del ciclo produttivo passa inevitabilmente per una “via italiana alla transizione ecologica” e quindi all’adozione di un modello produttivo nazionale del quale altri Stati europei sono stati pionieri già alla fine del secolo scorso.
L’ambientalismo consapevole, la scelta “nazionale” dell’industria, lo Stato quale attore e garante del sistema economico, sono tre dei fattori essenziali che possono aprire per l’Italia una nuova fase di industrializzazione, stavolta con più benefici che danni.
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