LA GRANDE TRANSIZIONE E IL RITORNO DELL’INDUSTRIA NAZIONALE

LA GRANDE TRANSIZIONE E IL RITORNO DELL’INDUSTRIA NAZIONALE

Estratto da un articolo di prossima pubblicazione sulla rivista “Polaris”

Di Gian Piero Joime

Il disegno della grande transizione digital-ecologica, fortemente promosso da summit internazionali, convegni, norme, standard e anche da variopinti movimenti di piazza, va oltre il cambiamento climatico e l’ansia pandemica, che tuttavia ne sono lo sfondo e lo legittimano: semplicemente mira a  sostituire tecnologie e prodotti obsoleti, e quindi anche inquinanti ed economicamente poco profittevoli, con nuovi prodotti digital-ecologici, in grado di rivitalizzare e standardizzare  l’offerta industriale, e di rispondere a nuove, omogenee e  indotte  esigenze del consumo “sostenibile” globale. La grande transizione digital-ecologica utilizza le spinte ambientaliste e le ansie virali per proporre un nuovo paradigma tecnologico-industriale, che  riposiziona il sistema tecno-progressista, fondato sull’innovazione e sulla competizione permanente, da grande inquinatore a salvatore del pianeta: nella realtà sono infatti proprio i sistemi di vecchia e di nuova industrializzazione ad aver da tempo individuato, attraverso innovazioni, norme sostenibili, e tecnologie  alternative la possibile soluzione del  rapporto tra crescita economica e tutela ambientale. Come dimostra anche il recente premio Nobel per la chimica, conferito agli inventori della batteria al litio.

Questa filosofia di fondo, che vede capitale e ambiente come sintesi e non come antitesi, pone dunque la ricerca tecnologica e la logica del mercato al centro della grande transizione, e mantiene saldamente il potere nelle forze industriali e commerciali, soprattutto multinazionali: quelle forze capaci di governare il cambiamento, tanto nel settore digitale quanto in quello delle energie;  quelle forze sistemiche capaci di conquistare nuove materie prime – litio, cobalto, terre rare…. – e di sviluppare innovazioni e tecnologie, con l’obiettivo di dominare processi e mercati. Più che di grande transizione,  sarebbe dunque corretto osservare le dinamiche competitive della progressiva sostituzione di vecchie materie prime e tecnologie con nuove fonti energetiche  e innovazioni, di processo e prodotto.

Questa filosofia di fondo scorre sempre nella logica dominante del mercato globale, e dunque sempre nel grande solco del rapporto di scambio e del potere di acquisto.

In questo scenario competitivo l’Unione Europea, partendo da una situazione di dipendenza informatica ed  energetica,  vorrebbe posizionarsi da  protagonista del grande cambiamento: con il Green Deal e le conseguenti direttive e piani operativi, come la Next Generation UE e i connessi piani nazionali, centrati soprattutto sul digitale e l’energetico.  Quindi, in Europa si producono diligenti piani pluriennali, con tanta burocrazia continentale  e nazionale,  e tante cabine di regia per la composizione degli interessi pubblici e privati, assai spesso divergenti; ne emerge una super-struttura burocratica, fiscale  e finanziaria che indubbiamente rischia di  appesantire il processo decisionale e operativo e di ampliare il divario con i competitor globali, già evidente semplicemente osservando la provenienza dei prodotti e delle componenti tecnologiche della filiera del digitale e  delle energie rinnovabili, in grandissima e prevalente parte di origine  cinesi e americani.

Mentre l’Unione Europea redige il Green Deal e predispone la sua potente struttura burocratica, la Cina viaggia velocissima,  tanto nella conquista delle miniere africane della materie prime, quanto nelle produzione di tecnologie e componenti delle diverse filiere dell’energia e della mobilità elettrica, e nella introduzione di dazi per proteggere l’industria nazionale; senza per questo ridurre l’impegno nel nucleare. E gli Stati Uniti continuano a investire nella conquista di miniere di terre rare e cobalto, ovunque nel mondo, nella revisione, come vedremo in seguito, della supply chain nazionale, e nella costante produzione di eco-innovazioni; senza per questo ridurre l’impegno, anzi rafforzandolo, nel gas, nel petrolio e nel nucleare.

Insomma, a furia di piani e cabine di regia, l’intero continente europeo rischia di posizionarsi come grande cliente, dai rassicuranti colori dell’arcobaleno, di ecoinnovazioni e prodotti della grande transizione digital-ecologica, realizzati in Cina e negli Stati Uniti; e anche la giusta ma  tardiva  idea di realizzare nell’intero continente ben 32 gigafactory per la produzione di sistemi di accumulo, se basati sugli ioni di litio rischia di accentuare le dipendenze, visto che gran parte del litio e del cobalto mondiale sono saldamente in mano cinese. Per chiarezza,  il  PNRR comporta il grande  utilizzo delle tecnologie e dei prodotti esistenti,  ma non lo sviluppo di nuove filiere continentali e nazionali. Si  promuove  così  il consumo di tecnologie digitali – 5G, semiconduttori, intelligenza artificiale – ed energetiche –  batterie, pale eoliche, panelli fotovoltaici, inverter – già presenti sul mercato, e con standard definiti, in buona parte provenienti dalle economie orientali e dalla  Repubblica Popolare Cinese, con l’evidente rischio di ampliare il solco competitivo.

Certo, la recente scoperta di un promettente giacimento di litio nella valle del Reno in Germania potrebbe essere un buon viatico per la ricerca di una maggiore autonomia energetica-industriale europea.

La grande transizione è una grande opportunità ma può essere una grande minaccia per il destino di tutte le filiere economiche, per la forte dipendenza estera da materie prime e componenti, come ampiamente mostrato nel corso della pandemia;  mentre il mondo si barricava in casa per lavorare, facendo crescere la domanda  di materiali tech e dispositivi elettronici, parallelamente si produceva una grave carenza di chip e materie prime, con effetti negativi su tutte le filiere industriali, fuori controllo se non per i pochi proprietari di materie prime e tecnologie.

La grande transizione digital-ecologica pone dunque evidentemente in primo piano la tutela delle catene di approvvigionamento, come fattore determinante per la sicurezza nazionale; come sembra sappiano molto bene negli Stati Uniti, dove la dipendenza dalle forniture estere rappresenta, secondo Washington, una minaccia, proveniente soprattutto dalla Cina,  al ruolo di leadership economica, tecnologica e militare.

E così, per paradosso, sembra proprio che la grande transizione digital-ecologica, fondata su principi e tecnologie globali, spinga al ritorno di forme di protezionismo delle economie nazionali, al ritorno del ruolo dello Stato per la ridistribuzione dei poteri economici.

Il ritorno della Grande Industria Nazionale

Dunque,  evviva la Grande Transizione, ma solo se presuppone la tutela e il rafforzamento dell’industria nazionale. Ecco perchè il 24 febbraio 2021, il presidente degli Stati Uniti, citando in quell’occasione il proverbio “Per mancanza di un chiodo, il ferro di cavallo è andato perso”, ha firmato l’ordine esecutivo (E.O.) 14017, “America’s Supply Chains, per avviare una revisione completa delle catene di approvvigionamento critiche del Paese per identificarne i rischi, affrontarne le vulnerabilità e sviluppare una strategia per garantirne la sopravvivenza agli attacchi competitivi. Perchè un intoppo in un angolo  del mondo può avere gravi e incalcolabili conseguenze sul resto del pianeta, e sull’economia americana.

Lo sforzo della task force, durato solo 100 giorni coinvolgendo diversi Dipartimenti (Commercio, Energia, Difesa e Salute) e agenzie federali,  dirigenti di industria, ricercatori, esperti, ha prodotto una sintesi strategica dell’importanza che le catene di fornitura hanno per la  nuova amministrazione americana, dai quali può dipendere la sopravvivenza  economica e la sicurezza di un Paese, che vuole fortemente riaffermare la sua leadership mondiale nell’ottica del “build back better”.

Tra i risultati delle valutazioni sulle vulnerabilità delle Supply Chain, risalta l’identificazione di quattro settori, tutti legati alla grande transizione e critici per la Sicurezza Nazionale: la produzione di semiconduttori e dispositivi di microelettronica avanzata; le batterie ad alta capacità, come quelle per veicoli elettrici; i minerali critici e le terre rare; prodotti farmaceutici e principi attivi farmaceutici.

Nel rapporto si evidenziano i gravi danni della delocalizzazione in chiave globalista dell’industria americana, specialmente nelle aree di maggior interesse della grande transizione digital-ecologica. Si legge, ad esempio, come “innovazioni essenziali per la preparazione militare, come le batterie agli ioni di litio, richiedono un ecosistema di innovazione, competenze e strutture produttive che attualmente mancano negli Stati Uniti”; si sottolinea poi la carenza di materie prime e terre rare: secondo il Dipartimento dell’Energia, la Cina raffina il 60% del litio e l′80% del cobalto a livello mondiale, due elementi fondamentali per le batterie ad alta capacità di ultima generazione e che oggi espongono il “futuro dell’industria automobilistica nazionale” a una “vulnerabilità critica”. Anche per l’evidenza che per le batterie ad alta capacità, secondo le stime, si passerà da una domanda da circa 747 Gigawattora (GWh) nel 2020 per le batterie destinate ai veicoli elettrici a 2492 GWh nel 2025 e che attualmente, la capacità di produzione Usa dovrebbe aumentare solo di 224 GWh nei prossimi quattro anni e mezzo;  e che  minerali e terre rare, indispensabili se si pensa che la domanda globale di litio e grafite che servono per le batterie elettriche vedranno la domanda crescere del 4000% entro il 2040.

Il risultato della sfrenata  globalizzazione degli ultimi decenni,  evidenziato dal Dipartimento del Commercio, è stato ad esempio,  che “i massicci investimenti pubblici nella fabbricazione di semiconduttori ha permesso alle imprese coreane e taiwanesi di surclassare le imprese basate in America”. Secondo i dati della Semiconductor Industry Association, nel 1990 gli Usa rappresentavano il 37% della produzione di semiconduttori, oggi solo il 12% . Il potere industriale, in un settore strategico così importante, e’ dunque passato altrove, soprattutto in  Oriente: Taiwan, il Paese leader nella fabbricazione di chip, fornisce sussidi cospicui alle sue imprese, a livello fiscale, per la costruzione delle fonderie e per la ricerca. In Sud Corea e Singapore i costi per la gestione degli impianti si riducono del 25-30% grazie ai sussidi statali, mentre il Governo di Pechino “si distingue per il ricorso aggressivo a misure economiche, molte dei quali al di fuori delle pratiche commerciali accettate a livello globale, per stimolare la produzione nazionale e conquistare quote di mercato nelle catene di fornitura critiche”.

Oggi lo stato dell’arte nell’orizzonte della Grande Transizione è che  l’economia globale dipende per il 92% dalle imprese taiwanesi nella produzione di chip di ultima generazione, e la Cina ospita il 75% della capacità globale di fabbricazione di celle per le batterie elettriche.

Anche il paese più potente del mondo deve fare finalmente  i conti dei  decenni dominati dallo  sfrenato liberismo cosmopolita e dallo sviluppo di oligopoli potentitissimi, e quantificare le conseguenti e sottovalutate debolezze dell’economia nazionale: in fondo si e’ passati dall’America First di Trump al “build back better” di Biden. Bisogna, secondo il rapporto, riportare la fabbrica e il lavoro al centro del villaggio, americano. “Decenni passati a concentrarsi sul lavoro come costo da tenere sotto controllo, e non come un bene su cui investire, hanno depresso i salari reali e ridotto la presenza sindacale. Ora – continuano i consiglieri di Biden – bisogna concentrarsi sulla creazione di percorsi che consentano a tutti gli americani di accedere a posti di lavoro ben retribuiti”.  Gli  Usa devono ricostruire la loro “base manifatturiera di piccole e medie imprese che hanno sopportato l’urto dello svuotamento della produzione statunitense“. Per i consiglieri della Casa Bianca se l’America non vuole perdere il suo ruolo di leader mondiale, bisogna al più presto “ricostruire la nostra capacità di produzione e innovazione”, con misure ad hoc e mirate per ogni settore strategico individuato: 50 miliardi di dollari in investimenti nell’industria dei semiconduttori, 15 miliardi di dollari per le infrastrutture necessarie per i veicoli elettrici, altri finanziamenti per la transizione dal fossile all’elettrico. Investire in Ricerca e sviluppo, individuare potenziali sedi di produzione e lavorazione sul suolo nazionale per i minerali critici, sfruttare il ruolo del governo come acquirente e investitore in beni considerati strategici.

Sempre nel rapporto si legge un principio che potremmo definire di autentico sovranismo:   “Dobbiamo premere per una serie di misure tasse, tutele del lavoro, standard ambientali e altro che aiutino a plasmare la globalizzazione per garantire che funzioni per gli americani come lavoratori e come famiglie, non semplicemente come consumatori”.

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