di Mario Bozzi Sentieri
C’è un convitato di pietra, nel rincorrersi di riunioni, di faccia a faccia e di dichiarazioni, in vista dell’elezione del Presidente della Repubblica: è l’idea tecnocratica, incarnata ovviamente da Mario Draghi e dal “governo dei competenti”, innamoramento senile di una democrazia in crisi, in Italia e non solo. Dei limiti del sistema democratico sono – del resto – pieni gli scaffali e le cronache nazionali ed estere. Con tutte le avvertenze e le “proiezioni” del caso.
Già nel 1963, in Società e intellettuali in America, Richard Hofstadter scriveva che “la complessità della vita moderna ha costantemente ridotto le funzioni che un comune cittadino può svolgere in autonomia con intelligenza e competenza”, con il risultato che la complessità ha prodotto inevitabilmente sentimenti di impotenza e di rabbia nella massa dei cittadini, consapevoli della loro inadeguatezza rispetto allo sviluppo della tecnologia e delle competenze professionali, che aumentano il ruolo delle élites tecnocratiche e la divisione sociale del lavoro, sempre più specializzato.
Maurice Duverger, all’inizio degli Anni Settanta (Giano: le due facce dell’Occidente) arrivò a parlare di “tecnodemocrazia”, quale sintesi del rapporto fra tecnocrazia e istituzioni democratiche.
Jason Brennan, con il saggio Contro la democrazia (2016), si è spinto oltre, portando al centro del dibattito sulla democrazia il tema della “selezione” dell’elettorato e arrivando a parlare di epistocrazia, di governo di coloro che conoscono, dei competenti. L’analisi di Brennan prende le mosse dalla considerazione che il livello di conoscenza degli americani riguardo le basi minime del funzionamento dello Stato è molto basso e che la maggior parte degli elettori, la quale agisce con “stupidità”, non fa male solo a sé stessa, ma anche ad elettori meglio informati e più razionali. Sulla base del principio per cui l’ignoranza è una ragione sufficiente ad escludere i bambini dal voto, per coerenza – scrive Brennan – si dovrebbero escludere anche gli ignoranti non giovani.
Dopo avere – per decenni – posto un netto discrimine tra tecnica e politica, fino al punto da codificare la distinzione tra funzioni d’indirizzo (la politica) e di gestione (i mezzi e le tecniche di attuazione) l’Italia pare, oggi, in balia di una sorta di ubriacatura di massa, peraltro coltivata, sull’onda dell’antipolitica, dai mass media, nel segno del governo (potere) dei competenti. Non che la questione non abbia una sua rilevanza, a fronte della complessità delle società postindustriali ed ipertecnologiche, ma da qui a consegnare armi e bagagli ai “rappresentanti” della tecnocrazia finanziaria e dell’alta burocrazia ce ne passa.
Siamo ormai ben oltre la concezione elitista della democrazia, teorizzata, tra Ottocento e Novecento, in varie forme, da Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Robert Michels, che pure si confrontavano all’interno del sistema liberale. Oggi si va oltre. Con il rischio di consegnare le “chiavi di casa” (la casa di tutti gli italiani) a chi ha bypassato tutte le regole, rifiutando “per principio” il confronto politico, utilizzando strumentalmente lo “stato di emergenza”, non considerando neppure il rapporto fiduciario tra esperti e cittadini, su cui dovrebbe fondarsi una sana forma di governo. Eppure, proprio a partire dalla ricca letteratura sul tema, qualcosa si potrebbe “inventare”. Duverger parla di “monarchia repubblicana”, con un capo del governo eletto a suffragio universale, vero decisore in grado di arbitrare fra le tecnostrutture.
La scuola partecipativa invita a costruire organici rapporti tra il livello della rappresentanza e quello delle competenze, proprio attraverso la rappresentanza delle competenze, attraverso un articolato percorso di integrazione sociale e politica, che dai luoghi di lavoro arriva, attraverso le categorie organizzate, ai vertici delle istituzioni rappresentative. E poi c’è la sfida della democrazia comunitaria e partecipativa, secondo la classica definizione di Moeller van der Bruck della democrazia come “partecipazione di un popolo al proprio destino”. Sono insomma diverse le opzioni sul terreno della rappresentanza degli interessi popolari. Prenderne coscienza è un primo, essenziale passo per non cadere prigionieri della falsa alternativa proposta da un sistema nel quale il formalismo democratico e l’opzione tecnocratica sono – in fondo – le due facce della stessa medaglia. Magari per provare ad uscirne fuori, salvando il diritto/dovere della rappresentanza ed il necessario valore delle competenze. Senza improvvisi “colpi di mano” da parte del potente di turno. Soprattutto evitando di assecondare l’idea “assolutista” della diarchia tecnocratica, con un “competente” al Quirinale ed uno a Palazzo Chigi: un po’ troppo anche per una democrazia “all’italiana”, storicamente abituata ai facili compromessi e ai cronici cambiamenti di fronte, sulla testa del popolo sovrano.
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