di Mario Bozzi Sentieri
Da dove partire per “riannodare” un confronto culturale adeguato alle responsabilità di una “nuova destra” di governo ? Il quesito non sembri velleitario o fine a se stesso. Di fronte ad una sinistra, culturale e massmediatica, quotidianamente impegnata a veicolare l’immagine di una destra incolta ovvero occupata a celebrare solo la memoria (“La fantasia non è il forte della nuova destra in cerca di egemonia culturale” – ha scritto su “la Repubblica” Stefano Cappellini, dal Festival di Venezia) dove cercare il “bandolo” di una matassa culturale all’altezza delle sfide della contemporaneità ? C’è spazio (ed argomenti) per affrontare “da destra” le grandi questioni relative alla “modernità responsabile” e alla “modernizzazione inclusiva” ?
Si tratta di problematiche “aperte”, che, negli ultimi decenni, hanno via via pervaso la cultura, la politica ed il vissuto quotidiano occidentale, spesso inconsapevolmente, ma non per questo in modo meno profondo. Vediamole in sintesi.
In origine, parliamo della fine degli Anni Settanta del Novecento, il termine “postmoderno” è contrassegnato, nel campo delle arti, della letteratura e della filosofia da due caratteristiche:
- L’abolizione della distinzione, tipica del Novecento, tra cultura elevata e cultura di massa.
- Il rifiuto o comunque la profonda diffidenza nei confronti delle teorie che vogliono spiegare la realtà.
Dal punto di vista politico e sociale il postmoderno segna gli anni Novanta allorché viene meno la vecchia contrapposizione tra i blocchi, tipica della Guerra Fredda, e si attivano i processi di globalizzazione dell’economia, con la contemporanea, profonda modificazione della struttura sociale interna alle nazioni occidentali.
Questo nuovo quadro, ancora in movimento, ha determinato:
- La terziarizzazione delle economie, grazie anche alla rivoluzione tecnologico-informatica.
- La diminuzione del lavoro operaio e quindi del suo peso sociale.
- Il sempre maggiore potere della tecnica.
- Lo sfumarsi della tradizionale divisione politica e culturale tra Destra e Sinistra.
Punto di partenza è che oggi, nell’era della postmodernità realizzata, la Storia tende ormai ad apparire senza scopo, non più segnata ed incalzata da quelle ragioni con cui il mondo delle ideologie novecentiste l’aveva caratterizzata. Questo ha significato anche il tramonto di quella cultura della necessità che aveva indotto l’umanità, il mondo delle masse, a ritenere che gli eventi marciassero inevitabilmente in una certa direzione.
Da trent’anni a questa parte l’Occidente ha, in estrema sintesi, dovuto fare i conti con:
- La fine del senso della Storia, con il conseguente emergere della pluralità delle storie.
- Il tramonto delle illusioni di emancipazione collettiva.
- La perdita di senso e di scopo della politica.
L’elemento di rischio dell’uscita dalla storica distinzione Destra e Sinistra, semplificatoria e consolatoria, ma efficace, è di depotenziare la politica, di trasformarla in semplice strumento di mediazione del reale, in mera amministrazione, con gravi rischi di legittimità per la tenuta degli assetti democratici.
La nuova sfida è dunque quella sul senso della politica, sulla capacità di rappresentanza della politica rispetto agli interessi reali dei cittadini, ma anche rispetto alla Storia, alle culture, alle identità che fanno una Nazione, che danno senso ed informano, cioè danno forma ad una comunità.
Cresce – non a caso – una forte domanda di tutela, di conservazione delle comunità locali, dei borghi, delle identità diffuse, di un’Italia profonda, ma spesso misconosciuta. Cresce con uno spirito ed una logica nuove, non più legate al vecchio localismo, al folklore e al provincialismo, ma impegnate a fare sistema, a promuoversi, attraverso forme di consorzio e di valorizzazione legate ai prodotti della terra, all’artigianato, al turismo. Del resto il patrimonio di ogni aggregato urbano, piccolo o grande, ha una duplice valenza, insieme fisica e spirituale. Essa è fatta di pietre, di chiese, di monumenti e di memoria. Questa memoria si incarna nel vissuto quotidiano ma anche nelle produzioni materiali, in quella che è stata definita come “l’architettura del commercio”, nell’arte delle botteghe e nel lavoro degli artigiani, nell’eleganza degli arredi e nella tipicità delle produzioni.
In questo ambito uno dei metri di riferimento è la qualità, che – in linea con una visione postmoderna – non è, non è solamente un attributo o una proprietà morale. Il “marchio Italia” riguarda, oggi, gli strumenti normativi necessari a difendere le produzioni nazionali, in un quadro di economia globalizzata, ed insieme sollecita una presa di coscienza culturale, essenziale al fine di dare nuovo senso e tutela ad una tradizione di buon gusto, di stile e di qualità della vita che appartiene al nostro Paese e che ci viene universalmente riconosciuta.
Non si tratta però solo di conservare l’esistente e di valorizzarlo. Occorre “dinamicizzare” la realtà sociale, favorire il ricambio generazionale, dare spazio alla creatività.
Terzo elemento essenziale, dopo la ripresa d’identità locale-nazionale e di qualità culturale-produttiva è il riconoscimento dei meriti.
Pensare e lavorare per costruire una società in cui il merito individuale venga riconosciuto, valorizzato e premiato, vuol dire ridare coraggio e motivazioni ai “produttori del futuro”. In questa definizione vanno certamente compresi i giovani, ma, più in generale, possono esservi ascritti tutti i ceti realmente produttivi, tutti i veri creativi, tutti coloro i quali sentono la responsabilità di giocare un ruolo attivo, in questa fase di passaggio ed oltre essa.
Ultima, ma non ultima questione, quella della costruzione di percorsi d’integrazione politica, culturale e sociale, puntando ad un’idea “superiore” di convivenza civile e dunque di organizzazione della produzione, dell’economia, dello Stato, in cui i rapporti tra gli uomini siano più importanti dei rapporti fra gli uomini e le cose.
Per incamminarsi consapevolmente lungo questa strada occorre non solo possedere adeguati metodi e strumenti di lavoro. E’ necessario ricostruire la fiducia rispetto al proprio destino, alla propria responsabilità presente di fronte al futuro, partendo da alcune domande di fondo: governare il cambiamento è possibile? Ed in che senso? Dando per scontate alcune sperequazioni ? Privilegiando gli obiettivi dati dalla crescita tecnologica ovvero individuando nuovi discrimini ?
Governare il cambiamento, oggi, è la vera questione che ci sta dinnanzi, che sta davanti alle Nazioni e agli Stati, alle aziende e ai lavoratori.
Il principale nemico da sconfiggere è la routine, la routine culturale e sociale, politica ed economica. Alla sfida contemporanea (e agli evidenti processi di precarizzazione) non è allora possibile rispondere con il già visto come l’ineluttabile orizzonte dei nostri destini. Se tutto cambia (in termini tecnologici, di standard esistenziali, di modelli produttivi, di parcellizzazione del lavoro) tutto deve cambiare nell’organizzazione sociale, nell’approccio culturale verso i nuovi problemi, nella politica, sui luoghi di lavoro.
Identità, qualità, meritocrazia, integrazione: è un’Italia positiva e costruttiva quella che va trasmessa all’opinione pubblica nazionale. Un’Italia per la quale i valori diventano atto politico concreto e le idee si trasformano in suggestioni ed in emozioni.
Ecco – in estrema sintesi – la sfida a cui la destra della postmodernità deve sapere rispondere in modo adeguato. Tradurre emozioni, tradizioni, identità in segni concreti, in proposte normative, in aspettative reali, in nuova coesione sociale. E viceversa trasformare le opportunità offerte dalla rivoluzione tecnologica della modernità in strumenti di valorizzazione delle identità, della qualità, dei meriti.
Concretezza e suggestioni, realismo ed aspettative: in questo mix l’affascinante impegno del ripensamento-cambiamento può diventare un obiettivo concreto e vincente, in grado di trasferirsi dall’azione politica al vissuto quotidiano. Per “rappresentare” nel profondo gli italiani e dare autentiche speranze “ricostruttive”.
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