di Mario Bozzi Sentieri
Quanto sono “costate” le crisi dei 68 esecutivi repubblicani, via via succedutisi dal 1946 ad oggi? Quanto ha pesato l’instabilità cronica sul “buon governo” del Paese?
Porsi queste domande è tutt’altro che un gioco dietrologico o un puro esercizio retorico, visto il confronto, appena iniziato, sulla riforma costituzionale.
Secondo quanto documentato da Accademia Politica, un’associazione di studenti dell’Università Bocconi, le cui analisi sono state riprese dal Sole24Ore, ad ogni crisi di governo quando cambiano i 23 ministri cadono infatti anche le persone chiave che ciascuno di loro aveva scelto, una squadra di circa 50 persone (capo gabinetto, capo dipartimento, capo legislativo, capo segreteria tecnica, tutti i vice ed i funzionari). Con un passaggio di consegne che riguarda in pratica oltre mille persone e, considerando che gli incarichi raramente coincidono con competenze specifiche, tutto quello che non è ordinaria amministrazione si paralizza. Si bloccano quindi appalti, decreti attuativi ed infine leggi e accordi in corso, con grave nocumento della stessa credibilità internazionale del nostro Paese. Che costi ha avuto questo forsennato turnover politico-istituzionale ? C’è poi il fronte finanziario. Secondo l’economista Marco Fortis dal 2012 al 2021 sono stati pagati 265 miliardi di euro di interessi sui titoli di Stato che si sarebbero potuti risparmiare con una classe politica affidabile e stabile.
E’ innegabile che la gracilità degli assetti istituzionali, creati dalla Costituzione del ’48 abbiano avuto, insieme ai problemi finanziari e di bilancio, un costo sociale che ha soffocato da un lato le potenzialità espansive del Sistema-Italia, dall’altro ne ha ritardato la modernizzazione. Prenderne atto, ben al di là di ogni polemica contingente, significa essere consapevoli, insieme alla cronicità delle crisi dei governi e delle coalizioni che li sostenevano, di quella che è stata, nei decenni trascorsi, una dimensione politica di basso profilo, più attenta all’ordinaria amministrazione (la politica del tappabuchi) che ad assecondare le spinte del Paese reale, più chiusa nei suoi giochi di Palazzo che capace di interpretare e governare lo “spirito del tempo”.
D’altro canto che cosa avrebbero mai potuto programmare degli esecutivi che nascevano come “balneari” o “di transizione” e che spesso non riuscivano a superare i tre mesi di vita?
Non a caso con il voto del 2022 il dato della stabilità è diventato l’elemento cardine di un’azione di governo di ampie prospettive, in grado di rispondere alle emergenze del momento, ma anche di avere quel respiro “epocale” che l’attuale stagione economica e sociale porta con sé. Non lo si dimentichi, magari assecondando le facili polemiche quotidiane di un’opposizione a corto di argomenti, dopo avere condiviso – per decenni – le responsabilità di governo.
Stabilità e riforma costituzionale (l’annunciato “premierato all’italiana”) insieme alla rottura dei vecchi modelli significa infatti rispondere a quelle che sono le domande immediate dei ceti produttivi del Paese e, nello stesso tempo, darsi una prospettiva , in grado di ricostruire, nel profondo, il Sistema Italia.
Sul primo versante, quello economico-sociale, la stabilità politica permette finalmente di realizzare una strategia in grado di garantire regole certe alle aziende, un quadro stabile di riferimenti (normativi, fiscali, finanziari) e quindi la possibilità di investire con la dovuta tranquillità.
Pensiamo ad un sistema fiscale da riordinare e “sfoltire”, che finalmente affronta – questo l’attuale indirizzo del Governo Maloni – la struttura dell’Irpef, la revisione della tassazione d’impresa; la revisione dell’imposta sul valore aggiunto, il graduale superamento dell’Irap; la razionalizzazione dell’imposta di registro; dell’imposta sulle successioni e donazioni; dell’imposta di bollo e degli altri tributi indiretti, diversi dall’Iva; la revisione delle disposizioni in materia di accisa e delle altre imposte indirette sulla produzione e sui consumi; il riordino delle disposizioni vigenti in tema di giochi pubblici; la revisione dell’attività di accertamento; la revisione del sistema nazionale della riscossione.
Sulla lunga durata pensiamo alla possibilità di programmare le grandi riforme di struttura, quelle che riguardano la pubblica amministrazione, le opere strategiche, le riforme “quadro” (nella scuola, nella sanità, nella ricerca, nella lotta alle nuove e vecchie povertà).
Pensiamo all’azione di delegificazione e al tema dei “testi unici”, intorno ai quali si gioca la partita di trasformare l’Italia in un Paese “normale” anche dal punto di vista normativo, con meno leggi e quindi con un migliore rapporto tra cittadini ed Istituzioni. Ivi compresi i tempi di pagamento (e qui bisogna dare ragione alla Commissione europea che ha deferito l’Italia alla Corte di giustizia per la non corretta applicazione delle norme della direttiva del 2011 sui ritardi di pagamento che impone alle autorità pubbliche di saldare le fatture entro 30 giorni).
Pensiamo alle “grandi opere”, autentica Cenerentola nazionale, attraverso le quali rispondere alle domande di infrastrutture, di velocità e di efficienza, che salgono dal Paese Reale, dalle aziende (in attesa di “retrovie” adeguate alla loro capacità espansiva) e dai cittadini (in attesa di mezzi di trasporto veloci, di un sistema energetico competitivo, spesso – in molte zone del Mezzogiorno – perfino di un bene primario come…l’acqua).
Temi sparsi che ci danno la quantità dei temi sul tappeto e della volontà di cambiamento, espressa nel suo primo anno di vita dal Governo Meloni, impegnato a programmare e realizzare, avendo finalmente delle prospettive di ampio respiro, garantite dalla stabilità politica e dal consenso popolare, ma dovendosi assumere il peso di decenni di ritardi, di instabilità politica, di pressapochismo gestionale.
Ha scritto, nelle sue Memorie della speranza, Charles De Gaulle: “L’efficacia e l’ambizione della politica sono legate alla forza e alle aspettative dell’economia”. Oggi come ieri, in un clima di stabilità, che va sostenuto da un’organica riforma costituzionale, come fu per la Francia della V Repubblica, è coniugando efficacia e forza, ambizione ed aspettative che si può vincere la sfida del cambiamento. Contro i paladini dell’immobilismo.
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