Di Francesco Guarente
Il 20 maggio del 1970, esattamente 51 anni fa, è stata promulgata la Legge n. 300, conosciuta più diffusamente come lo “Statuto dei Lavoratori”. Per quanto concerne il mondo del lavoro e delle relazioni sindacali, essa rappresenta il contributo più significativo a livello normativo nella storia del diritto del lavoro. Nonostante ciò, l’Italia del 2021 percepisce lo Statuto dei lavoratori più come un limite, una sorta di fastidio, piuttosto che un vanto, uno strumento dal quale partire per il cambiamento della cultura lavorativa ed un monito utile al fine di perseguire la tutela del “lavoro” intesa nell’accezione più ampia di diritto. Lo Statuto dei Lavoratori, voluto dall’ex Ministro socialista Giacomo Brodolini[1] e redatto dalla commissione nazionale presieduta dal prof. Gino Giugni, anch’egli socialista, è stata ed è tutt’ora la Legge principe per quanto riguarda il giusto equilibrio dei rapporti di forza nel mondo del lavoro. Senza entrare nel merito del clima di tensione sociale vissuto nel nostro Paese tra la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio del ’70, è opportuno ricordare che la Legge è il frutto di una lunga discussione che coinvolse l’intera comunità nazionale, le diverse anime politiche e le associazioni sindacali di ogni estrazione ideologica. In aggiunta, la Legge 300 del 1970 era già stata preceduta da altrettanti interventi normativi, non ultima la Legge 15 luglio 1966 n. 604 con la quale si era tesi a regolamentare la materia dei licenziamenti.
Anche se presente con le sue diverse anime, questa breve premessa ha lo scopo di sottolineare come la politica sia stata la protagonista nella gestione delle questioni sociali e del lavoro che ricoprivano una funzione cardine per l’interesse economico generale. Lo Statuto dei lavoratori ha introdotto una serie di norme che stabiliscono per la prima volta nella storia repubblicana i ruoli e le libertà delle rappresentanze sindacali, operando una prima e reale istituzionalizzazione del sindacato all’interno delle aziende. Nella storia d’Italia non era la prima volta, considerando il processo di inserimento dei sindacati nei gangli dello Sato durante il regime fascista, ma per i cambiamenti sociali ed economici la legge 300 ebbe un fortissimo impatto nel sistema delle rappresentanze sindacali all’interno dei luoghi di lavoro. Sono stati introdotti importanti elementi a tutela delle libertà dei lavoratori, come l’articolo 1 in merito alle libertà di opinione, di cui oggi ne sentiamo un’enorme necessità, passando per il famoso articolo 4 per finalià di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, oggi estremamente attuale con le nuovissime tecnologie di controllo a distanza. Ulteriore elemento distintivo è stato sicuramente l’introduzione del principio della reintegra disposto dall’articolo 18, fortemente ridimensionato e quasi del tutto svuotato con le riforme del lavoro operate nel 2015 dal governo di centrosinistra del tempo, mentre l’articolo 19 prevede le Rappresentanze Sindacali Aziendali, in parte superate dall’introduzione delle RSU. Non ultimo, all’articolo 20 è stata sancita la possibilità per i lavoratori di partecipare alle assemblee sindacali in maniera retribuita e mentre con l’articolo 28 si definisce la repressione alla condotta antisindacale per il datore di lavoro.
La Legge n. 300/70 pone i primi passi verso la costruzione di un rapporto di lavoro maggiormente teso alla partecipazione dei lavoratori nei processi decisionali interni alle rispettive aziende. Lo Statuto dei Lavoratori è ancora attuale e bisognerebbe ritornare a parlare di lavoro nei partiti e nelle istituzioni, ma soprattutto nei luoghi di lavoro e nelle piazze, con maggior forza. La piazza non è sempre sinonimo di distruzione e la tensione tra le diverse anime del lavoro, non è per forza fenomeno precursore di una stagione di terrorismo, ma può essere un legittimo strumento di pressione politica sulle istituzioni dello Stato. E’ necessario ritornare a considerare la tensione non solo nell’accezione negativa del termine ma nella sua positiva natura di “origine del cambiamento”. Lo Statuto dovrebbe essere la base da cui partire per costruire una riflessione che porti la società a ridiscutere i valori del diritto al lavoro e di ciò che oggi lo rende sempre più instabile, senza dimenticare la precarietà contrattuale e il perenne rischio di delocalizzazione al quale la nostra società è costretta a sottostare, e senza sottovalutare la necessità di normare il lavoro agile o il “lavoro da casa” per porre un freno ai rischi insiti nel suo utilizzo come la labilità dell’applicazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro, la perdita della socialità dei lavoratori arrivando fino alla necessità di maggior partecipazione che integri e migliori gli strumenti introdotti dalla Legge 300 e dagli accordi interconfederali.
Il lavoro, in ogni sua forma, è l’unico strumento che può realmente combattere la povertà ed è l’unico strumento che può rendere un cittadino partecipe ed artefice del suo destino e quello del proprio Paese. Ed è per questo che bisogna ricordare lo Statuto, dimenticato volontariamente nell’era delle ricorrenze inutili, nell’era in cui ogni giorno è una giornata mondiale dedicata spesso e volentieri a valori relativi, contro il lavoro che invece dovrebbe essere un valore dato per assoluto. Le forze motrici del nostro Paese dovrebbero avere il coraggio di confrontarsi per costruire un nuovo Statuto dei lavoratori che non sia sostitutivo bensì integrativo della Legge 300 del 1970. Parliamo di lavoro e lasciamo i Maneskin alle chiacchiere da bar.
[1] Il Ministro Giacomo Brodolini morì prima che lo Statuto fosse redatto e varato definitivamente e venne sostituito alla guida del Ministero del Lavoro dal democristiano di sinistra Carlo Donat-Cattin.
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