Di Mario Bozzi Sentieri
E’così urgente spingere per la cosiddetta autonomia differenziata? La prudenza è d’obbligo, vista la delicatezza del tema e a fronte di un’Italia a più velocità, dove l’erogazione dei servizi essenziali tra Mezzogiorno e Settentrione è oggettivamente sbilanciata.
E non solo perché lo “spacchettamento” delle competenze (con la devoluzione – nella forma più radicale – di 23 materie dallo Stato alle regioni) rischia di accentuare questo divario. Quella che si configura come una vera e propria riforma costituzionale richiederebbe piuttosto una gradualità d’interventi, in grado di coniugare – come è stato più volte sottolineato da destra – decentramento e presidenzialismo: più autonomia dei territori da un lato con un contestuale rafforzamento e ammodernamento dello Stato, sostenuto dal presidenzialismo e da uno status speciale per Roma Capitale. Non perdendo però di vista la realtà di una “questione Meridionale” che va affrontata senza fughe in avanti e soprattutto senza ideologismi di maniera. Che l’Italia sia un Paese “diseguale” è nei fatti. Il dato più grave è che, negli ultimi dieci anni, le differenze a livello territoriale, si siano allargate, con il risultato che il Mezzogiorno – come evidenziato nell’ultimo rapporto della Banca d’Italia “Il divario Nord-Sud: sviluppo economico e intervento pubblico” ha visto costantemente diminuire il suo peso economico, facendo emergere una crescente difficoltà nell’impiegare la forza lavoro disponibile, una riduzione dell’accumulazione di capitale e una minore crescita della popolazione rispetto alle aree più avanzate del Paese dove si sono concentrati i flussi migratori.
Sulle difficoltà economiche del Mezzogiorno pesano inoltre gli ampi ritardi nella dotazione di infrastrutture e nella qualità nei servizi pubblici erogati, sia dagli enti locali, sia dallo Stato attraverso le proprie articolazioni periferiche. Rileva anche la definizione ancora parziale dei livelli essenziali delle prestazioni nell’erogazione dei servizi pubblici e di adeguati meccanismi perequativi volti a garantirne il soddisfacimento. Al contempo, gli indicatori disponibili su efficienza, efficacia e correttezza dell’azione amministrativa nel Mezzogiorno appaiono significativamente peggiori della media italiana.
Di fronte a questa realtà le ricette messe in campo nel passato sono apparse deboli e sostanzialmente ripetitive, a fronte di una crisi del Mezzogiorno d’Italia che essendo “strutturale”, cioè “di sistema”, avrebbe richiesto evidentemente interventi di ben più ampia portata. Né il richiamo ad una generica “modernizzazione” è sufficiente.
Il problema, oggi come ieri, è che non basta parlare di infrastrutture se non si riesce a fare sì che i cantieri non diventino delle voragini mangiasoldi, che i tempi siano rispettati, che la qualità dei manufatti sia conforme a quanto appaltato.
Né può essere taciuto il tema della “legalità”. Inutile nasconderselo: intere aree del Mezzogiorno sono controllate dalla criminalità organizzata, che gestisce gli appalti, condiziona gli investimenti, ricatta le aziende. Vogliamo – con coraggio e chiarezza – porci il problema di quanto costa la criminalità in termini di mancato sviluppo nel Mezzogiorno? In che modo la criminalità si impossessa di specifiche aree di mercato e con quali effetti sulle regole della concorrenza? Quanto è diffuso il senso di insicurezza e di paura tra gli imprenditori meridionali? Quanto questo “contesto” frena l’arrivo di investitori italiani ed esteri? Non sono quesiti retorici. Dietro sigle malavitose, quali ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra, Sacra Corona Unita, si nasconde una complessa ragnatela, in grado di avvolgere e soffocare territori, realtà produttive, amministrazioni locali. Pensare, in questo contesto, di riuscire a gestire la realtà meridionale in modo ordinario significa precludersi ogni possibilità di riuscita.
Ci vuole allora ben altro che qualche intervento “a pioggia” se non si interviene per ricostruire un quadro generale di certezze nel campo della legalità, della trasparenza amministrativa, del rapporto cittadino-istituzioni.
E qui veniamo al tema cruciale degli Enti Locali. Inquinamenti malavitosi da un lato e disarticolazione regionalistica dall’altro hanno oggettivamente indebolito la costruzione di organiche politiche territoriali.
In questo contesto si è veramente convinti che l’autonomia differenziata può funzionare? Senza arrivare ad un nuovo centralismo bisognerebbe, al contrario, pensare a “piani di regia” sovra-regionali, che affrontino una volta per tutte le annose questioni legate alle infrastrutture (treni, autostrade, portualità), agli investimenti produttivi (finalmente liberati dai piccoli interessi politici locali), alla possibilità di essere concorrenziali sui mercati globali, al ruolo stesso del Mezzogiorno, ponte naturale dell’Italia e dell’Europa nel Mediterraneo.
In estrema sintesi: per affrontare, con un minimo di efficacia e di realismo, la nuova “Questione Meridionale” serve una “visione nazionale”, cioè un’idea di Stato autorevole, che controlli il territorio e ricucia il rapporto tra Istituzioni e cittadini; un’efficiente sistema burocratico, finalmente svincolato da ogni potere malavitoso; un coinvolgimento diretto delle categorie produttive, in grado di mettere in circolo competenze, professionalità ed investimenti.
Non è allora solo questione di risorse (il mitico Pnrr) né di affrettate riforme federaliste. Per affrontare la nuova “Questione Meridionale” ci vuole un’azione d’insieme, un quadro strategico, capace di fissare obiettivi chiari e realistici, di mobilitare i territori, al di là del “localismo”, di costruire un’autentica speranza di riscatto. Mai come oggi perciò la fretta è cattiva consigliera.
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