RIVOLUZIONE PARTECIPATIVA. LA VISIONE SOCIALE DI DE GAULLE E LA SUA ATTUALITA’ (parte 2)

RIVOLUZIONE PARTECIPATIVA. LA VISIONE SOCIALE DI DE GAULLE E LA SUA ATTUALITA’ (parte 2)

Rivisitando oggi il pensiero sociale di de Gaulle, maturato fra gli anni ’40 e ’60, si prova la sensazione di sentir parlare dei nostri attuali problemi e necessità. Questa ispirazione profetica, oltretutto non di un sociologo o di un politologo bensì di un militare del più alto livello, può spiegare in qualche misura le ragioni del suo parziale insuccesso: comprendere le cose con molto anticipo crea spesso anacronismi, così come vederle in ritardo, ma proprio per questo vale la pena approfondirne i contenuti.

Il 7 giugno 1968, all’indomani delle gravi turbolenze di maggio, il Presidente rilascia una lunga intervista a Michel Droit, affermato divulgatore radiotelevisivo. Una delle prime domande verte sulla partecipazione, di cui si parla ormai insistentemente in attesa del previsto referendum popolare, che avrebbe dovuto celebrarsi prima d’estate, ma che l’emergenza politica farà slittare  alla prossima primavera.

Michel Droit:

“Generale, questa società che avete descritto a tinte fosche, tutti la vogliono cambiare, anche se  ciascuno in modo diverso. Nella Vostra qualità di Capo dello Stato, per ciò che riguarda la Francia avete la responsabilità e i mezzi per farlo. Potreste dunque spiegare in modo  semplice e chiaro come intendete questo cambiamento? “.

De Gaulle:

“Per la mutazione di cui mi parlate esistono risposte diverse e molto lontane fra loro. In particolare ne scorgo tre. Innanzitutto c’è il comunismo, che dice: creiamo d’ufficio la maggior quantità possibile di beni materiali e ripartiamoli in modo che nessuno ne disponga a priori, salvo che non vi sia espressamente autorizzato. Come? Con la costrizione morale e materiale, ossia mediante una dittatura implacabile e perpetua, anche se al suo interno differenti clan si combattono l’uno contro l’altro, alla ricerca dell’egemonia. No, dal punto di vista dell’uomo la soluzione comunista è cattiva. Il capitalismo, poi, fondato sul profitto, afferma: fabbrichiamo sempre più ricchezza che, ripartendosi grazie al meccanismo del libero mercato, spinga in alto il livello di vita dell’intero corpo sociale. Soltanto che la proprietà, la direzione, gli utili d’impresa, nel sistema capitalistico appartengono unicamente al capitale, e tutti coloro che non ne possiedono si trovano  in uno stato di alienazione rispetto alla attività stessa a cui contribuiscono. Neppure il capitalismo, dal punto di vista dell’uomo, offre una soluzione soddisfacente.

C’è poi una terza alternativa, la partecipazione, che cambia la condizione dell’uomo nel contesto delle civiltà moderna. Dal momento che un gruppo di persone si mette insieme in un’opera economica comune, per esempio per far marciare un’industria apportando sia i capitali necessari, sia la capacità tecnica di direzione e di gestione, sia il lavoro, occorre che tutti formino una società, ove tutti siano interessati al suo rendimento e al suo buon funzionamento, sulla base di un interesse diretto. Questo implica che venga attribuita ad ognuno, per legge, una parte di ciò che l’impresa guadagna e che investe in se stessa grazie ai propri utili.  Ciò esige inoltre che tutti i suoi collaboratori siano informati dell’andamento aziendale e possano, tramite rappresentanti liberamente nominati, partecipare alla società, ai suoi Consigli e alle sue Assemblee, per farvi valere i loro interessi, punti di vista e proposte. Questa è la strada che ho sempre ritenuta buona, lungo la quale ho già fatto qualche passo, per esempio nel 1945 quando il mio governo  istituì i Comitati d’impresa, quando nel 1959 e nel 1967 , tramite specifiche ordinanze, ho aperto la breccia verso la cointeressenza. E’ in questa direzione che occorre proseguire”.

Da quanto precede emerge chiaro  che de Gaulle intende la partecipazione come un nuovo  modello di sviluppo economico-sociale, una vera e propria rivoluzione antropologica capace  non già di migliorare le condizioni materiali dei lavoratori dipendenti, come accade nei programmi riformatori ispirati al socialismo, bensì di trasformare gli stessi in proprietari, modificandone non solamente lo status categoriale ma financo la psicologia. Lo staff di esperti vicino al Presidente conia a tal proposito un nuovo lessico: il sistema classico di mercato è definito oligocapitalismo ( i mezzi di produzione nelle mani di pochi), mentre il socialismo reale è correttamente chiamato  monocapitalismo( i mezzi di produzione in mano ad un solo soggetto). La partecipazione, quindi,  non è considerata fine a se stessa, bensì lo strumento per trasformare la società, oligo o monocapitalista che sia, in un diverso assetto pancapitalista ( i mezzi di produzione nelle mani di tutti). L’obiettivo finale, non già di sopprimere la proprietà privata ma di estenderla progressivamente alla maggioranza dei cittadini, faceva già parte della dottrina sociale della Chiesa (a cui de Gaulle si richiama di frequente, anche per i suoi  antichi rapporti d’amicizia con il cardinale Roncalli, nunzio apostolico a Parigi nel dopoguerra ed autore, una volta Papa, della celebre Enciclica Mater et magistra ), divenendo oggetto di molti studi  pure in Italia, fra cui , apprezzatissimi, quelli del professore Pier Luigi Zampetti.

La riforma partecipativa deve marciare, secondo il Presidente, su due binari paralleli: quello pubblico-istituzionale e quello privato-aziendale. Questi aspetti avrebbero dovuto integrarsi a vicenda: l’autogestione delle diverse componenti aziendali e il conseguente superamento della lotta di classe non potevano non incidere sulle istituzioni politiche rappresentative. Tanto più, che nel progetto di de Gaulle  è inoltre compresa una forma di partecipazione nel settore pubblico, cioè nella burocrazia ad ogni livello, di cui egli intende rimuovere, sia pure gradualmente, gli ostacoli, nocivi all’imprenditorialità e alla crescita economica. Quest’ultimo aspetto prevede il coinvolgimento, nella presa delle decisioni, di tutte le componenti sociali su cui esse ricadono, dando vita a una serie di feed-back, o effetti circolari di ritorno, tipici delle teorie vicine ai fautori della socializzazione.

Il primo esperimento in tal senso si sarebbe dovuto condurre nell’ambiente universitario, dal quale era partita la rivolta del 1968, descritto nella celebre proposta del Ministro dell’Istruzione Edgar Faure, che prevedeva la gestione delle università da parte di comitati elettivi di studenti e doventi, l’abolizione dell’esame di ammissione (in Francia uno dei più severi d’Europa)  e il permesso di svolgere attività politica e sindacale  all’interno degli atenei. La rivoluzione partecipativa  si sarebbe dunque sviluppata a 360 gradi, non risparmiando alcun settore della società. Si trattava quindi di ridisegnare integralmente il modello sociale e di sviluppo, in una direzione che non fosse incline né al socialcomunismo, né al capitalismo selvaggio. Per questo si scatenarono contro tale progetto tutti i possibili clan d’interessi, come vedremo meglio in un ulteriore contributo. Gli stessi parlamentari, pur in maggioranza gollisti, si fanno prendere dalla paura di non essere rieletti  nelle tornate successive  e rinviano con trucchi procedurali, sine die, la discussione delle leggi proposte dal Generale, come quella del 12 luglio 1965 che prevedeva la partecipazione dei lavoratori all’incremento di valore della propria azienda. De Gaulle, il 31 luglio 1968 invia pertanto un vigoroso sollecito al Consiglio dei Ministri, ove specifica i punti essenziali della riforma istituzionale che ha intenzione di sottoporre ai francesi , di cui riportiamo gli aspetti principali:

“Si tratta di organizzare, su tre piani differenti ma strettamente interconnessi, la partecipazione di tutti gli interessati all’andamento delle attività che li riguardano, e cioè: istituzione costituzionale di un Senato socio-economico, che sostituisca sia quello esistente, sia il Consiglio Economico e Sociale (omologo francese del Cnel italiano, N.d.R.) , comprendente da un lato i rappresentanti delle collettività locali e delle attività regionali, dall’altro i rappresentanti dei grandi organismi d’ordine economico e sociale del Paese; creazione di Consigli regionali che riuniscano i delegati delle collettività locali , dei Consigli municipali  e delle attività socio-economiche della Regione; revisione del numero delle Regioni, riforma dei Consigli regionali e dell’organizzazione municipale. Il nuovo Senato e i nuovi Consigli regionali dovranno includere una rappresentanza universitaria. Nelle imprese, la legge dovrà garantire la partecipazione regolare dell’insieme del personale all’informazione, agli studi  e ai dibattiti da cui procedono le decisioni. E’ quindi indispensabile e urgente l’applicazione dell’ordinanza del 1967 sulla cointeressenza agli utili; applicazione inoltre della legge del 12 luglio 1965 che riguarda la cointeressenza all’accrescimento del valore aziendale”.

Dal brano citato emerge chiara l’ampiezza della riforma partecipativa gollista la quale, ben lungi dal limitarsi a quel banale “referendum sulla riforma del Senato”, come gli storiografi riduzionisti definiscono la consultazione popolare del 27 aprile 1969, spalanca invece le porte a una rivoluzione radicale della società  post-comunista e post-capitalista, che se avesse visto la luce avrebbe cambiato l’intera storia europea, e quindi italiana, dell’ultimo mezzo secolo. Non ci sfugga, infine, l’introduzione del concetto  di “federalismo partecipativo” , dato il coinvolgimento diretto  negli enti locali delle forze economiche e sociali. Anche di qui dovremo ispirarci per il futuro.

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