«ROMA O MORTE. DISCORSI DEGLI EROI RISORGIMENTALI». RIPRENDIAMO IN MANO LA NOSTRA STORIA

«ROMA O MORTE. DISCORSI DEGLI EROI RISORGIMENTALI». RIPRENDIAMO IN MANO LA NOSTRA STORIA

Di Francesco Carlesi

Gli anni ’90 sono stati per la nostra Nazione un periodo di sostanziale benessere. Eppure, sotto traccia, proprio allora è cominciato un processo quasi irreversibile di distruzione dell’industria pubblica italiana, dello Stato sociale e del controllo pubblico del credito. Il tutto è stato accompagnato dalla mazzata finale al concetto di “politico”. La prima Repubblica fu travolta dai suoi errori ma anche da una ben precisa strategia dei grandi potentati finanziari, che da allora hanno preso il sopravvento su qualsiasi tipo di “decisione” politica. Non stupisce che proprio quando lo Stato veniva meno, si fecero più pressanti le spinte autonomiste, da Nord a Sud. Da allora, trovò sempre più largo spazio una pubblicistica volta a minare le basi stesse della nostra Nazione, a cominciare dal processo risorgimentale. Se una rilettura critica era ed è sempre benvenuta, troppo spesso  le letture “antiunitarie” hanno banalizzato l’Ottocento italiano, riducendo processi complessi alla sola azione di “massonerie” e intrighi di potenze estere (con cui però nessuno, men che meno il Vaticano, mancò di ricorrere più volte). Dante, Petrarca, Machiavelli, Carducci, Foscolo, Leopardi, Manzoni e tutto l’immenso patrimonio culturale della Patria dimenticato e travisato, per cercare improbabili eden preunitari che giustificassero le difficoltà del presente. L’identità italiana, nata nei tempi delle guerre che romani e italici combatterono insieme, arrivò fino al Risorgimento, «la formulazione di una nuova, inusitata tradizione (…) che ha qualcosa di miracoloso per la sua capacità di far ascendere un popolo unito culturalmente e socialmente ma diviso politicamente e istituzionalmente a dignità di nazione, accorciando le distanze che tanto lo hanno separato dalle altre nazioni», come ha scritto Domenica Fisichella.

Questa breve premessa serve a dare il benvenuto a una piccola ma importante pubblicazione intitolata «Roma o morte. Discorsi degli eroi risorgimentali» (Associazione Culturale Le Frecce, Roma, 2020), che raccoglie alcuni dei discorsi più significativi dei protagonisti della costruzione della nazione italiana, sulla questione romana in particolare. Mentre oggi perdiamo i pezzi, svendendo eccellenze industriali, abdicando al ruolo mediterraneo, “sputando” sulla nostra identità, ecco che rileggere certe parole può stimolare passione e orgoglio, perché l’Italia, con tutte le sue differenze e i suoi incredibili difetti, rimane una Nazione come poche altre, «la sola terra che abbia due volte gettato la grande parola unificatrice alle nazioni disgiunte», come scrisse Mazzini. Le parole di intellettuali e combattenti spesso giovanissimi servono a conoscere la nostra storia («fuori dalla storia l’uomo è nulla») e farci rivivere un periodo lontano e pieno di eroismi, mostrando nondimeno un’attualità talvolta straordinaria.

Mameli, Piscane, Mazzini, Cadorna e Garibaldi

Goffredo, giovanissimo autore del Canto degli italiani, più noto in seguito come Inno di Mameli, fu un attivo sostenitore della Repubblica Romana (1849), per difendere la quale trovò la morte a 22 anni. «L’Italia in questo momento concentra le sue forze al conseguimento di due grandi risultati: la nazionalità e l’indipendenza»: queste parole erano la sua bandiera e non sembrano aver perso forza neanche ai nostri giorni, quando le potenze estere, dalla Francia alla Turchia passando per la Cina, cercano di influenzare la Nazione e “rubargli” il sempre più traballante ruolo internazionale. Nelle parole di Mameli, spesso ferocemente ostili al potere temporale del Papa e al suo atteggiamento antiunitario, il richiamo alla comunità era centrale: «Ma chi vorrebbe, attorniati come siamo da forti e compatte nazioni che tendono a schiacciarci sotto il loro peso, dividere in mille brani l’Italia?», rimarcava con stretta logica il giovane mazziniano. Accanto a lui nella Repubblica Romana si trovò Carlo Pisacane, giovane socialista («schiavitù o socialismo: altra alternativa non v’è», scrisse quasi anticipando il famoso “socialismo o barbarie” novecentesco) animato da una fortissima coscienza nazionale, testimoniata dalle sue parole: «senza una passione universalmente sentita, gli italiani non potranno combattere con valore: se poi la passione e l’esaltazione resteranno, le nostre schiere saranno di tanto superiori a quelle degli altri popoli». Il suo impeto lo portò a condannare chiunque si affidasse in toto allo «straniero», come molti che vedevano in Parigi «la nuova Roma» (e sembra quasi di vedere gran parte del ceto culturale e giornalistico dei nostri tempi). Qualsiasi progetto internazionale sarebbe stato, ed è ancora, impossibile tagliando le radici e l’identità dei popoli: «se ogni individuo non sente fiducia nelle proprie forze, dignità e uguaglianza assoluta col resto dei cittadini, così l’associazione universale non potrà avere luogo se prima ogni nazione non si costituisca nei propri caratteri, e non ci sia fra tutte un’uguaglianza universalmente sentita».

Premesse simili a quelle di Mazzini, il padre dei Doveri dell’uomo. Se «l’individuo è troppo debole e l’umanità troppo vasta», la Patria era secondo lui il mezzo migliore per costruire una comunità libera. Questa avrebbe dovuto avere «per base il popolo, per norma le conseguenze de’ suoi principi logicamente dedotte ed energicamente applicate, per forza la forza di tutti, per risultato il miglioramento di tutti, per fine il compimento della missione che Dio le dava». Senza la terra dei padri, erede di un glorioso passato, qualsiasi “rivoluzione sociale” sarebbe stato irrealistica: «dove non è Patria, non è patto comune al quale possiate richiamarvi: regna solo l’egoismo degli interessi, e chi ha il predominio lo serba (…). Non vi seduca l’idea di migliorare, senza sciogliere prima la questione Nazionale, le vostre condizioni materiali: non potete riuscirvi». E «la Patria sola, la vasta e ricca Patria italiana che si stende dalle Alpi all’ultima terra di Sicilia, può compiere quelle speranze». Le sue parole, colme di orgoglio nazionale, richiami al lavoro, all’idea di associazione, erano mosse da vero e proprio amore:

«La Patria non è un territorio: il territorio non ne è che la base. La Patria è l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore; il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio».

Ogni opzione federalista era da lui seccamente respinta: «I politici che si chiamano federalisti e che vorrebbero fare dell’Italia una fratellanza di Stati diversi, smembrano la Patria e non ne intendono l’Unità. Gli Stati nei quali si divide oggi l’Italia non sono creazione del nostro popolo; uscirono dai calcoli d’ambizione di principi o conquistatori stranieri, e non giovano che ad accarezzare una sfera più ristretta della grande Patria».

Lo stesso spirito lo ritroviamo negli altri due protagonisti del libro edito da «Le Frecce»: Raffaele Alessandro Cadorna, tenente colonnello che guidò il V Corpo d’Armata alla presa di Roma (1870) e Giuseppe Garibaldi. L’«eroe dei due mondi» si distinse nei suoi discorsi per i richiami alla «concordia, prima necessità dell’Italia». Questo coraggioso combattente («noi non siamo quelli che si lasciano comprare da brevetti, pistagne e dorature, come la turba de’ lacchè e delle livree») era ben cosciente delle difficoltà che avrebbero caratterizzato la storia unitaria: «La nazione è nel popolo – nel popolo, che è buono dappertutto – a Marsala come a Torino. La nazione non ha paura, e i nemici d’Italia, vengano da destra o da sinistra, dovranno pensarci bene. (…) L’Italia sotto le repubbliche del medio evo, benché abbia fatto delle grandi cose, perché l’Italia farà sempre delle grandi cose, pure, perché divisa, fu il ludibrio dello straniero. Quando saremo tutti uniti ci temeranno. (…)  Siamo dunque concordi, e l’Italia sarà».

Come ricordava Gioacchino Volpe, senza negare problemi, differenze e divisioni, il Risorgimento è un processo in divenire e una conquista degli italiani «su se stessi». Riprendere il mano questo processo o perire come popolo e come storia sembrano le uniche alternative al momento, e sta a ognuno scegliere la propria barricata.

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