di Mario Bozzi Sentieri
Sul tema “inverno demografico” il rischio è di diventare ripetitivi, annoiando i lettori. Ne siamo consapevoli. Ce ne scusiamo, ma – come si dice – “repetita iuvant”. Almeno in via teorica. Anche perché gli ultimi numeri diffusi dall’Istat confermano ed aggravano l’emergenza, nota da anni.
Per il quinto anno consecutivo l’Italia fa registrare un calo di popolazione di 116mila unità rispetto al 2018. L’istituto nazionale di statistica mette in evidenza anche un altro dato importante: per ogni 100 persone che muoiono in Italia ne nascono solo 67, dieci anni fa erano 96. Il tasso di ricambio naturale tra nascite e decessi è il più basso mai espresso dal paese da 102 anni. Dato ancora più preoccupante è la spaccatura dell’Italia, con un Mezzogiorno, tradizionalmente prolifico, dove si concentra il calo della popolazione, mentre a crescere è la popolazione del Nord, in modo particolare nelle provincie autonome di Trento e Bolzano, in Lombardia ed Emilia Romagna.
I numeri non danno scampo: secondo una costante universale il valore di sostituzione, ovvero il numero di figli necessari a garantire una bilancia demografica in pareggio, è di 2,1. Se un Paese lo supera la popolazione ha tendenze espansive, se non lo raggiunge si va verso una contrazione demografica. Le statistiche dell’Italia mostrano che il Paese è sceso sotto il tasso di sostituzione nel 1977, e dal 1984 è stabilmente sotto il valore di 1,5, un livello che non solo non evita il declino demografico, ma annuncia quasi certamente che la caduta sarà traumatica.
Fin qui i numeri, gravi e disarmanti. Ancora più gravi e disarmanti molte delle proposte sul “che fare”, diffuse a botta calda, dai principali organi d’informazione nazionali.
La sociologa Chiara Saraceno (su “La Stampa”) è orientata verso una soluzione “tappabuchi” e semplicistica, parlando di “ricorso intelligente all’immigrazione: rendendo appetibile venire in Italia per studiare, lavorare, fare una famiglia a giovani donne e uomini di altri paesi, valorizzandone i talenti e gli investimenti, facendoli sentire a casa”, ribadendo soluzioni già sentite come un più facile accesso all’abitazione per i giovani, un’entrata nel mercato del lavoro non segnata da precarietà e penalità, miglioramento dei servizi per la prima infanzia. E poi via alle “co-genitorialità nei confronti dei bambini” di coppie dello stesso sesso.
L’economista Tito Boeri intervistato dallo stesso giornale non va oltre una generica richiesta di asili nido ed una difesa delle “donne in carriera”.
“La Repubblica” si barcamena, evocando i diritti: “il diritto delle donne a lavorare, ad avere retribuzioni adeguate, a realizzarsi su tutti i piani. Il diritto dei giovani a una vita indipendente. Diritti fondamentali, troppo a lungo ignorati” fino a concludere che il problema oggi non è convincere le coppie ad avere più figli perché ognuno ha il diritto di scegliere liberamente.
Gli esempi potrebbero continuare. Ci si tiene insomma sulle generali, ma niente di più.
In questo contesto da segnalare due interventi controcorrente.
Il primo è l’intervista rilasciata a “La Nazione” dalla ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella, la quale ha denunciato le cause culturali della denatalità, parlando di “sazietà della vita”, in ragione del fatto che la pandemia demografica appare come “una malattia collaterale del benessere, che ovviamente non va curata frenando lo sviluppo ma armonizzandolo con la genitorialità e con il suo valore sociale. Gli studiosi definiscono quella che stiamo vivendo come teoria della seconda transizione demografica: se la prima è derivata innanzi tutto dal progresso scientifico e quindi dalla riduzione della mortalità neonatale, oggi un fattore determinante è la mutazione delle dinamiche sociali e soprattutto relazionali, il modo diverso di “fare famiglia” e anzi la tendenza a farla sempre meno”.
Su “Avvenire” Adriano Bordignon, presidente del forum delle associazioni familiari, dicendosi soddisfatto degli interventi del governo sull’Isee ha invitato tutti ad “indossare gli occhiali della famiglia” considerando ogni risorsa spesa per la natalità non come un costo ma come un investimento. In tal modo le politiche familiari non sarebbero la cenerentola del welfare ma il perno di una vera e propria ‘politica industriale’ per il Paese”.
L’invito – al di là del genericismo di certi interventi, tutti uguali e … sterili – è ad un approccio culturale e metapolitico verso la crisi demografica, guardando alle cause profonde del problema. Pesa sull’argomento – bisogna riconoscerlo in premessa – un certo complesso ideologico, determinato sia dal radicalismo d’impronta maltusiana, che, a partire dagli Anni Sessanta, ha condizionato prima il mondo accademico poi il costume collettivo, individuando nell’ansia della sovrappopolazione della terra una delle grandi emergenze del mondo moderno, sia dall’idea che, parlando di crisi demografica, si finisca per evocare i fantasmi del numero-come-potenza, con gli immancabili corollari del colonialismo e dell’imperialismo.
Oggi il dato oggettivo è che la denatalità determina implicazioni di lungo periodo sia per la produttività e la crescita economica che per la finanza pubblica e la sostenibilità del sistema di welfare, con particolare riferimento a pensioni e sanità e, più in generale, del debito pubblico.
Come ha sottolineato il Ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti l’impatto della transizione demografica è infatti rilevante anche ai fini della valutazione sul rischio del debito sovrano aggiornato dalle società di rating, in considerazione della sua rilevanza per le previsioni di crescita economica e l’andamento dei conti pubblici.
Recentemente il CNEL ha sottolineato come sia un punto di debolezza del nostro Paese anche quello delle piccole e medie imprese familiari, mediamente amministrate da membri della famiglia anziani. La mancanza di successori in grado di assumere la gestione e la proprietà dell’azienda familiare è la principale minaccia alla continuità aziendale. In questi casi, puntare sulle nuove generazioni può accelerare il necessario cambiamento, apportando una visione innovativa, competenze digitali e tecnologiche, una mentalità imprenditoriale e un approccio intergenerazionale. Tutti elementi in grado di stimolare lo sviluppo economico e la competitività a livello internazionale. Ad oggi – secondo uno studio I-AER – il 56% degli imprenditori del nostro Paese ha un’età maggiore di 50 anni. Le PMI familiari costituiscono circa l’80% del totale in Italia e coprono un fatturato pari al 42% del totale. La famiglia, quindi, è al centro della componente business. Il passaggio generazionale nei prossimi 10 anni sarà un tema delicato da affrontare: l’analisi di I-AER stima un ritmo di 396 passaggi al giorno di aziende tra generazioni di imprenditori fino al 2034.
In un orizzonte più vasto, i figli vanno insomma visti come una grande risorsa, spirituale e materiale, su cui credere ed investire, piuttosto che un costo. Pena la frammentazione sociale, l’indebolimento delle nostre possibilità di vita e di crescita, il lento tramonto del nostro essere nazione.
Pensiamo all’Italia degli Sessanta del ‘900 (dove, non a caso il tasso di natalità era doppio rispetto a quello attuale) espressione di un un’energia sociale ed economica, in cui la spinta demografica era un fattore essenziale, una sorta di “investimento” sul futuro che, oggi, purtroppo non si riesce neppure ad immaginare, laddove a vincere è l’interesse particolare, il soggettivismo, l’egoismo individuale. E a crescere sono le diseguaglianze, con una caduta della coesione sociale e delle strutture intermedie di rappresentanza che l’hanno nel tempo garantita. Siamo al “letargo esistenziale collettivo”. Ed in discussione c’è l’esistenza stessa del nostro Paese: linea piatta per l’Italia senza figli e senza domani. Decisamente una brutta prospettiva … A meno che non si cominci ad invertire la tendenza, favorendo la crescita di una nuova cultura dell’accoglienza alla vita e delle politiche in grado di favorirla, a partire dalla centralità famiglia.
Di questo bisogna trovare il coraggio di discutere, prendendo consapevolezza delle conseguenze della crisi demografica ed invitando le forze politiche, le istituzioni ed il mondo culturale ad una forte assunzione di responsabilità. Consapevolezza e responsabilità: di questo, alla prova dei fatti, c’è un gran bisogno, ancora prima che degli asili, degli assegni familiari e di generici incentivi. Che pure servono, ma non bastano.

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