Di Mario Bozzi Sentieri
Secondo quanto emerge dal Rapporto annuale dell’Istat, in Italia la “trappola della povertà” è più intensa che nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea, con un quarto della popolazione (24,4%) a rischio di povertà o esclusione sociale.
In questo contesto, il dato più preoccupante ed “emblematico”, su cui ci saremmo aspettati una particolare attenzione da parte del mass media, è una sorta di orientamento generale che sta trasformando la povertà in un fattore fisiologico per milioni di famiglie.
Quasi un terzo degli adulti (tra 25 e 49 anni) a rischio di povertà proviene infatti da genitori che, quando erano ragazzi di 14 anni, versavano in una cattiva condizione finanziaria.
Nel rapporto dell’Istat si legge che “le diseguaglianze strutturali continuano a rappresentare un elemento determinante e discriminante nelle opportunità che definiscono il destino sociale delle persone. La forza del legame tra condizioni di vita dei giovani e degli adulti e quelli della famiglia di origine è un problema non solo individuale, ma soprattutto collettivo, visto che in Italia 1,4 milioni di minori crescono in contesti di povertà assoluta”.
La ricerca cita uno studio dell’Ocse secondo il quale “già a 5 anni provenire da contesti familiari con uno status socio-economico più alto si traduce in un vantaggio di 12 mesi nei livelli di alfabetizzazione emergente, intesa come le capacità di lettura e scrittura che un bambino acquisisce nell’età pre-scolare tra i 2 e i 5 anni” e l’alfabetizzazione emergente è un forte predittore dei risultati scolastici.
Per l’Istat, “è necessario garantire a tutti bambini fin dalla nascita livelli di benessere che consentano un adeguato livello di sviluppo fisico, cognitivo, emotivo e relazionale” incidendo sui contesti di vita dei bambini e sulle loro opportunità educative, formative, culturali e di socializzazione. È sottolineato come “determinante” che queste opportunità siano caratterizzate da equità di accesso, riducendo, per quanto possibile, l’influenza dei contesti di appartenenza per poter sottrarre i minori dal “circolo vizioso della povertà”.
In realtà – ci sia permessa una puntualizzazione – i “livelli di benessere” coprono solo un aspetto della questione, laddove il tema ha risvolti antropologici e “culturali” ugualmente rilevanti, che riguardano la percezione collettiva (e la conseguente frustrazione) rispetto alla possibilità di garantire/favorire la mobilità sociale, nella misura in cui le chances di una persona nella vita appaiono sempre più determinate dal punto di partenza, cioè dallo stato socio-economico e dal luogo di provenienza della famiglia.
Nasce da qui un immobilismo sociale che raffredda le aspettative e le ambizioni della società, bloccando l’accessibilità alle varie posizioni sociali, attraverso una serie di vincoli strutturali, riconducibili certamente alla povertà delle famiglie, ma anche alla mancanza di politiche sociali in grado di incentivare/motivare gli orientamenti generali.
Gli stessi passaggi tradizionali dell’esistenza (“la fine degli studi” , “l’inizio di un lavoro”, “la formazione di una nuova famiglia” e “la nascita del primo figlio”) appaiono in crisi e – al momento – non sembrano avere prodotto fondate alternative.
Pensiamo anche al ruolo centrale della Scuola e alla possibilità, attraverso chiari indirizzi meritocratici, di ridare all’Italia, alle famiglie, quella dinamicità sociale oggi sopita, riaccendendo, soprattutto tra le giovani generazioni, aspettative concrete. Pensiamo alla necessità di offrire a chi lo merita adeguati strumenti economici finalizzati all’istruzione/formazione. Ed ancora di incentivare l’accesso agli studi superiori e universitari per i meno abbienti, sostenendo, in questo ambito, esperienze formative a livello internazionale.
Ciò evidentemente non deve indurre a sottovalutare forme d’intervento a favore delle fasce deboli. Sarebbe però un errore pensare di limitare tutto a qualche, pur necessario, intervento economico. E questo proprio in ragione della mobilità sociale, essenziale strumento per uscire dal “circolo vizioso della povertà”.
“In una società che lo valorizza – ha scritto Luca Ricolfi – il talento può diventare un’arma cruciale a disposizione dei ceti subalterni per compensare gli svantaggi dell’origine. In una società che non premiasse il merito, e anche più in una che trovasse il modo di non premiare il talento, o addirittura di punirlo (la distopia di Vonnegut), le classi subordinate risulterebbero disarmate, e quelle superiori avrebbero molte più possibilità di far valere le armi di cui hanno il monopolio: reddito, ricchezza, relazioni sociali”.
La lotta all’immobilismo sociale passa da questa consapevolezza. E non è un passaggio da poco, visti i ritardi ed i danni, culturali e sociali, che decenni di falso egalitarismo hanno provocato nella società italiana, non solo bloccando il cosiddetto “ascensore sociale”, quanto soprattutto inducendo molti a sottovalutare la possibilità di migliorare la condizione della propria famiglia, a partire dal destino dei figli. Alla logica minimalista della “mancetta di Stato” (quella che aveva spinto certuni, giusto cinque anni fa, a dichiarare, affacciandosi da Palazzo Chigi, che la povertà era stata abolita) è tempo di opporre forme di intervento in grado di riattivare la mobilità sociale. Ne va della sorte delle famiglie più povere, della crescita delle giovani generazioni e dei più ampi destini nazionali.
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